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dimanche, 02 décembre 2012

Carl Schmitt: Il Machiavelli del '900 contro il potere di tecnici e finanza

Carl Schmitt: Il Machiavelli del '900 contro il potere di tecnici e finanza

 

Marcello VENEZIANI

 

Ex: http://agsassarialtervista.blogspot.be/ 

 

 

cs4489568_orig.pngL'aveva chiamata san Casciano la sua casa del buen retiro a Plattenberg, il luogo natìo in cui tornò per trascorrere la lunga vecchiaia fino alla morte, all'età di 97 anni, nel 1985. San Casciano, come l'ultima casa-esilio di Niccolò Machiavelli, quando si ritirò dall'attività di Segretario. 

 

Ma Carl Schmitt confidò in un'intervista che aveva battezzato così la sua casa non solo in onore di Machiavelli ma anche perché San Casciano è il santo protettore dei professori uccisi dai loro scolari. Schmitt si identificava in ambedue, nell'autore de Il Principe, nel suo lucido realismo politico e nel suo amore per la romanità; ma anche nel Santo, perché si sentì tradito da molti suoi allievi. Quell'intervista dà il titolo a una raccolta di scritti di Carl Schmitt, curata da Giorgio Agamben e riapparsa da poco (Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, pagg. 314, euro 16,50).


Non è un caso ma un destino che Carl non si chiami Karl. La matrice cattolico-romana e latina è decisiva nella sua biografia intellettuale. La tradizione a cui si richiama Schmitt è lo jus publicum europaeum, di cui «padre è il diritto romano e madre la Chiesa di Roma»; la fede in cui nacque, visse e morì è quella cattolica apostolica romana; «la concezione di Schmitt - notava Hugo Ball - è latina»; la lingua latina era per lui «un piacere, un vero godimento»; un suo saggio chiave è Cattolicesimo romano e forma politica, e l'annesso saggio sulla visibilità della Chiesa. E non solo. La critica di fondo che Schmitt rivolge alla sua Germania è «il sentimento antiromano» che la percorre da secoli e che sostanzia la differenza tra cultura evangelica e cattolica. È una divergenza che spiega molte cose del passato e anche qualcuna del presente. Compresa quell'asprezza intransigente dei tedeschi e di altri popoli di derivazione protestante verso i Paesi mediterranei di formazione greco-latina e cattolico-romana. È quello per Schmitt il vero spread tra tedeschi e latini.


Ma Schmitt va oltre e coglie l'incompatibilità tra «il modello di dominio» capitalistico-protestante dei tedeschi e il concetto romano-cattolico di natura, col suo amore per la terra e i suoi prodotti (che Schmitt chiama terrisme). «È impossibile - scrive Schmitt - una riunificazione tra la Chiesa cattolica e l'odierna forma dell'individualismo capitalistico. All'alleanza fra Trono e Altare non seguirà quella di ufficio e altare o fabbrica e altare». È possibile invece che i cattolici si adattino a questo stato di cose. Per Schmitt il cattolicesimo ha il merito d'aver rifiutato di diventare «un piacevole complemento del capitalismo, un istituto sanitario per lenire i dolori della libera concorrenza». Schmitt ravvisa un'antitesi radicale tra l'economicismo, condiviso dai modelli americano, bolscevico e nordeuropeo, e la visione politica e mediterranea del cattolicesimo, derivata dall'imperium romano. Rifiuta pure di riferirsi ai valori perché di derivazione economicista.


Nei saggi e nelle interviste raccolti da Agamben, figura anche un testo che apparve in Italia nel '35, in un'antologia curata da Delio Cantimori col titolo di Principi Politici del Nazionalsocialismo. Peccato che non siano stati più ripubblicati il saggio introduttivo di Cantimori e la prefazione di Arnaldo Volpicelli che sottolineava le divergenze tra fascismo e nazismo, e fra la teoria di Schmitt sull'Amico e il Nemico e l'idealismo di Gentile, a cui egli si ispirava, per il quale il nemico era accolto e risolto nell'amico, ogni alterità era superata nella sintesi totalitaria e «sostanza e meta ideale della politica non è il nazionalismo ma l'internazionalismo». Qui sta, diceva Volpicelli, «la differenza fondamentale e la superiorità categorica del corporativismo fascista sul nazional-socialismo». A proposito di Hitler, Schmitt ricorda che una volta confessò di provare compassione per ogni creatura e aggiunse che forse era buddista. Hitler era gentile nei rapporti personali, nota Schmitt, e non aveva mai visto il mare. Riferendosi al suo ascendente sul pubblico, rileva «la sua dipendenza quasi medianica da esso, dall'approvazione, dall'applauso interiore».


Le interviste percorrono i punti centrali delle opere di Schmitt: la critica al romanticismo che sostituisce Dio e il mondo con l'Io; il Nomos della terra e la contrapposizione con le potenze del mare; la derivazione teologica dei concetti politici; la dialettica amico-nemico; la teoria del partigiano e la sovranità come decisione nello stato d'eccezione; quel decisionismo peraltro estraneo alla sua indole («Ho una peculiare forma di passività. Non riesco a capire come la mia persona abbia acquisito la nomea di decisionista», confessa con autoironia). E poi la sua raffinata passione letteraria, anche in questo erede di Machiavelli.


C'è una ragione di forte attualità del pensiero schmittiano. È la sua doppia previsione della spoliticizzazione che avrebbe portato al dominio mondiale dei tecnici e dell'avvento di guerre umanitarie che sarebbero state più inumane delle guerre classiche, perché condotte nel nome del bene assoluto contro il male assoluto. L'intreccio fra tecnica, economia e principi umanitari è l'amalgama che comanda oggi il mondo. Per assoggettare i popoli, scrive profeticamente nel '32, «basterà addirittura che una nazione non possa pagare i suoi debiti». Schmitt descrive «la cupa religione del tecnicismo» e nota che oggi la guerra più terribile può essere condotta nel nome della pace, l'oppressione più terrificante nel nome della libertà e la disumanità più abbietta nel nome dell'umanità. L'imperialismo dell'economia si servirà dell'alibi etico-umanitario. Il potere, avverte Schmitt, è più forte della volontà umana di potere e tende a sovrastare in modo automatico, impersonale: «non è più l'uomo a condurre il tutto, ma una reazione a catena provocata da lui». Non dunque un complotto ordito da poteri oscuri ma un automatismo indotto da una reazione a catena non più controllata dai soggetti umani. Quella reazione a catena passa dall'incrocio fra tecnica e finanza ed è visibile nell'odierna crisi globale. Da qui la necessità di rifondare la sovranità della politica. E di ripensare al Machiavelli del '900, quel tedesco in odore di romanità che ipotizzava la nascita di un patriottismo europeo. La Grande Politica di Schmitt e il suo nemico: il Tecnico, bardato di etica, a cavallo della finanza.

 

(di Marcello Veneziani

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dimanche, 25 novembre 2012

Le nomos de la terre – dans le droit des gens du Jus publicum europaeum

Le nomos de la terre – dans le droit des gens du Jus publicum europaeum

par Michel Bourdeau

Ex: http://infonatio.unblog.fr/

Schmitt_nomos_de_la_terre-23a63.jpgSi le nom de Carl Schmitt n’est plus tout à fait inconnu en France, où plus d’une dizaine de ses ouvrages ont déjà été traduits depuis 1972, sa personnalité reste encore très controversée. Grand théoricien du droit constitutionnel et international de l’Allemagne de l’entre deux guerres, son attitude à l’égard du nazisme lui valut d’être emprisonné plus d’une année après 1945. Refuser d’aller plus loin serait pourtant regrettable, comme ceux qui voudront bien ouvrir Le nomos de la terre s’en rendront rapidement compte. Publié en 1950 et composé dans des conditions difficiles, ce gros ouvrage offre une vue d’ensemble sur la pensée de l’auteur et passe à bon droit pour son oeuvre maîtresse.

En opposition au positivisme juridique, accusé de verser dans un universalisme vide, Carl Schmitt plaide pour une approche concrète du droit, et met en conséquence l’espace au centre de sa conception : tout ordre juridique est d’abord un ordre spatial. C’est pourquoi, parmi les différents textes législatifs, la loi par excellence est le nomos, les grecs désignant par ce mot (qui vient de nemein : partager) le processus fondamental qui lie localisation et loi. Mais l’espace se présente ici bas sous deux formes contrastées : terre et mer, terre ferme et mer libre, auxquelles correspondent deux ordres spatiaux différents. Cette opposition donne lieu à des développements captivants sur la définition des eaux territoriales, le partage des mers, les guerres maritimes et la piraterie, ou encore sur la question de savoir si la mer est à tous ou à personne, res omnium ou res nullius. Par ce biais, la pensée de Schmitt puise également aux sources mythiques de l’histoire du droit.

Comme le Husserl de L’arche Terre ne se meut pas ou le Comte du Grand Fétiche, il nous invite à faire retour sur ce fait primitif et primordial qu’est notre existence terrestre. Le pari du livre, nous dit la préface, est de chercher le sens qui habite la terre.

L’idée est développée sur le cas du droit des gens, du jus publicum europaeum. Après une première partie présentant la notion de nomos de la terre, les trois suivantes examinent donc tour à tour la genèse (16ième siècle), l’épanouissement (17-19ième siècles) puis le déclin (20ième siècle) de ce droit public européen. Cette histoire se confond avec celle de la guerre, l’originalité du droit public européen consistant, à cet égard, à avoir voulu non abolir la guerre mais la circonscrire. Faute de pouvoir rendre ici toute la richesse de ces analyses, on n’en retiendra que les deux termes : la sortie du moyen âge et l’après 1918, dont nous ne sommes toujours pas sortis.

Dans le premier cas, l’événement décisif a été la découverte ou, pour parler avec les Espagnols, la conquête du nouveau monde. Les célèbres leçons de Francisco de Vitoria (1492-1546) sur les Indes et le droit de guerre, où l’on a voulu voir le début d’une nouvelle idée du droit, appartiennent en réalité encore au moyen âge. Leur auteur est un théologien et sa théorie de la guerre juste présuppose une instance supérieure aux belligérants, en l’occurrence le pouvoir spirituel de la papauté. Pour naître, le droit public européen a dû précisément s’affranchir de la tutelle de la théologie. Silete theologi; silence, théologiens : tel était alors le mot d’ordre. Pour mettre fin aux guerres civiles religieuses qui faisaient rage en Europe, il a fallu séparer le politique du religieux. Le concept moderne d’État est le fruit des efforts des légistes pour définir une sphère neutre, indépendante, où les membres des diverses confessions puissent cohabiter pacifiquement. Schmitt aimait en particulier à se reconnaître dans l’un d’eux, Jean Bodin, victime comme lui des revers de fortune qui guettent les conseillers du prince.

L’engagement personnel est encore plus visible dans le second cas, l’auteur n’ayant jamais caché sa farouche hostilité au Traité de Versailles ou à la Société des Nations. Le livre tout entier trouve même son point de départ dans une réflexion sur le sort réservé à l’Allemagne après la double défaite de 1918 et 1945, sort qui n’est pas conforme au droit public européen péniblement constitué dans les siècles antérieurs et qui en consacre la fin. A la différence du traité de Vienne qui avait réorganisé durablement l’Europe, les traités qui mirent fin à la première guerre mondiale n’instauraient aucune paix véritable, faute d’avoir défini un nouvel ordre spatial. En revanche, une nouvelle conception de la guerre s’y faisait jour. Le droit public européen avait renoncé à l’idée de guerre juste pour lui substituer celle d’ennemi respectable, de justus hostis. Mais les destructions massives rendues possibles par la technique moderne ont besoin d’ennemis absolus. Après 1918, la guerre d’agression est transformée en crime. La fin logique des hostilités ne sera donc plus une paix négociée mais une reddition inconditionnelle, concept forgé aux États-Unis lors de la guerre de Sécession; corrélativement, la diabolisation de l’ennemi permet le retour de l’idée de guerre juste, la Société des Nations se substituant à la papauté dans le rôle d’instance supérieure décidant du bien fondé de la cause.

Le déclin du droit public européen marqua aussi le déclin de l’ordre spatial européo-centré instauré au seizième siècle et les pages consacrées à la montée en puissance de « l’hémisphère occidental », c’est-à-dire des États-Unis apportent, sur la politique nord-américaine, un éclairage inattendu. Aujourd’hui où tout le monde a en tête le God bless America, Carl Schmitt décrit la bonne conscience inébranlable de ses habitants, persuadés d’appartenir à un monde nouveau, meilleur; il rappelle que dans sa fonction première, la doctrine Monroe devait former un cordon sanitaire destiné à empêcher les moeurs et les institutions corrompus du vieux continent de se propager outre Atlantique. Quand les États-Unis se décident, non sans peine, à sortir de leur isolement, leur suprématie devient vite éclatante. Alors que du traité de Westphalie (1648) à la conférence de Berlin (1885) c’est l’Europe qui décidait de l’ordre spatial de la terre, à Paris, en 1919, c’est le monde qui décide de l’ordre spatial de l’Europe. Celle-ci, en reconnaissant explicitement la doctrine Monroe, à l’article 21 du pacte de la Société des Nations, avalisait cet état de fait : elle s’interdisait d’intervenir dans le nouveau monde, sans contrepartie équivalente de l’Amérique, qui désormais est à la fois présente et absente sur le continent européen.

Le Congrès ayant refusé de ratifier le Traité de Versailles pour signer avec l’Allemagne une paix séparée, les États-Unis ne siègent pas à Genève; du moins officiellement car, par le biais des États sud-américains dont ils se sont réservés le droit de faire et défaire à leur gré les gouvernements, ils y sont bien présents et les décisions de Washington pèsent lourd à Londres, à Paris ou à Berlin. Rétrospectivement, on est tenté de donner raison à Carl Schmitt lorsqu’en 1950 il constatait que le Traité de Versailles avait engendré non un ordre mais un désordre spatial et laissait donc sans réponse la question d’un nouveau nomos de la terre. Aujourd’hui où il n’est question que de nouvel ordre mondial, force est d’admettre que nous ne sommes guère plus avancés.

Peter Haggenmacher achève son utile présentation en indiquant quelques faiblesses de l’ouvrage. Pour bien en évaluer les thèses, il conviendrait en particulier de s’interroger sur leurs liens avec une pratique dont on sait qu’elle a été problématique. Il n’est cependant pas nécessaire de partager toutes les idées de l’auteur pour être impressionné par la force avec laquelle elles sont exposées et reconnaître que l’ouvrage est tout simplement passionnant.

Michel Bourdeau

 http://www.parutions.com

samedi, 24 novembre 2012

“Democratie zonder limiet” – Tibor Machan

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Democratie zonder limiet” – Tibor Machan

Op “The Daily Bell” verscheen op 5 oktober 2012 een interessant artikel van de hand van Tibor Machan. Men kan het volledige artikel hier lezen in het Engels, maar voor zij die dat wensen, staat hieronder een vertaling in het Nederlands.

Het is een interessant stuk in deze tijden nu overheden steeds meer de financiële crisis aangrijpen om steeds meer macht over hun burgers op te eisen. Uiteraard wilt dit niet zeggen dat wij volledig akkoord gaan met wat Tibor Machan elders schrijft, maar het is wel een denkoefening die we moeten maken. Als rechtsnationalisten wensen we immers dat de staat wel degelijk ingrijpt in bepaalde materies. Wij wensen echter geen staat die zodanig veel angst heeft voor haar burgers dat de enige oplossing van de heersende elite de instelling van een totalitair systeem is. Dan dient er immers verzet te komen.

Verzet dat niet uitgaat van een nog totalitairdere staat zonder enige echte omschrijving van doelen en rechten. Iets dat de Occupy-beweging wel lijkt te eisen, waardoor ze enkel het beest dat ze bestrijden machtiger zullen maken. Stof tot nadenken dus!

De Magna Charta was een vroege poging om de rol van de staat in te perken, om de omvang van koninklijke heerschappij te beperken. Het resultaat in vele landen was uiteindelijk de constitutionele monarchie.

Toen democratieën monarchieën vervingen, begon de noodzaak om de staatsmacht te beperken af te nemen. Ook al waren er vele politieke filosofen die waarschuwden dat democratieën zeer tiranniek kunnen blijken. De dictaturen van de meerderheid zijn maar al te goed bekend. Het meest recente voorbeeld hiervan dat de laatste tijd wordt besproken, is de evolutie in Egypte en elders in het Nabije Oosten. Toen Hamas bijvoorbeeld verkozen werd, betekende dit geen vooruitgang voor de beperkte democratie.

Zelfs in landen als de Verenigde Staten van Amerika werd de staatsvorm die zich vormde de naam “illiberal democracy” toegekend. Het boek van Fareed Zakaria, “The Future of Freedom: Illiberal Democracy at Home and Abroad” bespreekt het verschil tussen liberale en illiberale democratieën in geopolitieke context. Maar hij is niet de eerste om hierover te schrijven, zo vinden we het reeds terug in het boek van Alexis de Toqueville “Democratie in Amerika”.

Uiteraard is er iets zeer mis met ongelimiteerde democratieën [ongelimiteerd zijnde de totalitaire macht van de vertegenwoordigers van de meerderheid der kiezers, nvdr] Er is nu eenmaal geen morele verantwoording te vinden voor de idee dat de meerderheid van de bevolking in een land zijn wil kan opleggen aan al de rest. Dit idee raakt kant noch wal. Waarom zou een grotere groep mensen, waar ook op Aarde, het recht hebben om aan een kleinere groep ongelimiteerd zijn wil op te leggen? Nergens in de politieke filosofie en theorie is er enig onderbouwd argument hiervoor te vinden. Indien dat er wel zou zijn, dan zou dit inhouden dat een grote hoeveelheid tuig op één of andere manier het recht heeft om anderen te onderwerpen om hen te dienen. Het beroemde voorbeeld van een lynching, waarbij een massa iemand publiekelijk ophangt zonder daarbij noodzakelijk bewijzen van zijn schuld, illustreert dit goed. De wil van een kwade groep mensen opleggen, maakt het nog niet moreel verdedigbaar. En zelfs wanneer de grotere groep zijn wil rechtvaardig is, maakt het nog niet rechtvaardig om die op te leggen aan anderen. Menselijke rechtvaardigheid moet een materie van vrije keuze zijn, slechts in zelfverdediging mag geweld gebruikt worden tegen anderen.

Het verkiezingsproces in zogenaamde democratieën is allesbehalve moreel gerechtvaardigd. Zelfs wanneer het zich verstopt achter de term “wij”, zoals het vaak probeert, luister maar naar politici waar ook ter wereld en merk op hoe zij altijd beweren te spreken namens iedereen, dan nog heeft de wil van de meerderheid door haar omvang geen morele authoriteit. Niet de minste! Iedereen die die wil wenst te ontwijken, is perfect gerechtvaardigd om dit te doen.

Tibor Machan
Professor at the Argyros School of Business and Economics, Chapman University

mercredi, 21 novembre 2012

Een interview met Alexander Doegin

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Een interview met Alexander Doegin

Inleiding

In februari 2012 reisde professor Alexander Doegin naar New Delhi, India, om er deel te nemen aan het 40ste Wereldcongres van het International Institute of Sociology, waarvan het thema dit jaar in volgend teken stond: “After Western Hegemony: Social Science and its Publics.”

Professor Doegin was zo vriendelijk om wat tijd vrij te maken voor enkele vragen vanwege medewerkers van Arktos die eveneens op het congres aanwezig waren. 

We hebben in dit interview gepoogd om professor Doegin enkele van zijn basisconcepten te laten verduidelijken om zodoende de verwarring en de desinformatie weg te nemen die rond hem en zijn beweging, de Eurazische Beweging, en haar zijtak in de Engelstalige wereld, de Global Revolutionary Alliance, hangen. Het interview werd afgenomen door Daniel Friberg, CEO, en John B. Morgan, hoofdredacteur van Arktos.

Dit interview werd gepubliceerd op het moment dat professor Doegin als spreker aanwezig was op Identitarian Ideas 2012, georganiseerd door de Zweedse organisatie Motpol in Stockholm op 28 juli 2012, en verliep tegelijk met de publicatie, door Arktos, van professor Doegins boek The Fourth Political Theory (http://www.arktos.com/alexander-dugin-the-fourth-political-theory.html [5]). Dit is het eerste boek van de hand van professor Doegin in het Engels.

In het Westen leeft de perceptie dat u een Russische nationalist bent. Voelt u zich hierdoor aangesproken?

Het concept van de natie is een kapitalistisch, westers concept. Daartegenover staat het Eurazisme, dat zich richt op culturele en etnische verschillen, en niet op éénmaking op basis van het individu, zoals het nationalisme vooropstelt. Wij verschillen van het nationalisme, doordat we een pluraliteit van waarden verdedigen. Wij verdedigen ideeën, niet onze gemeenschap; ideeën, niet onze maatschappij. Wij dagen de postmoderniteit uit, maar niet enkel namens de Russische natie. De postmoderniteit is een gapende leegte. Rusland vormt slechts een deel van de globale strijd. Het is zeker en vast een belangrijk deel, maar het vormt niet het uiteindelijke doel. Voor onze medestanders in Rusland kunnen we Rusland niet redden, zonder tegelijkertijd de wereld te redden. Net zoals we de wereld niet kunnen redden, zonder Rusland te redden.

Het gaat niet enkel om een strijd tegen het westerse universalisme. Het gaat om een strijd tegen alle, ook islamitische vormen van universalisme. We aanvaarden geen enkele politiek die universalisme wil opdringen aan anderen – westers, noch islamitisch, noch socialistisch, noch liberaal, noch Russisch. Wij zijn niet de verdedigers van het Russische imperialisme of revanchisme, maar wel van een globale visie en multipolariteit die gebaseerd zijn op de dialectiek van de beschaving. Onze tegenstanders beweren dat de veelheid aan beschavingen noodzakelijkerwijs leidt tot een clash. Deze bewering is fout. De globalisering en de Amerikaanse hegemonie leiden zonder uitzondering tot bloedige inmenging en geweld tussen beschavingen, waar er vrede, dialoog, of conflict zouden kunnen zijn, afhankelijk van de historische omstandigheden. Maar het opleggen van een heimelijke hegemonie leidt tot conflicten en, onvermijdelijk, erger in de toekomst. Ze hebben het dus over vrede, maar voeren oorlog. Wij verdedigen de gerechtigheid – niet oorlog of vrede, maar gerechtigheid en dialoog en het naturlijk recht van elke cultuur om haar identiteit te bewaren en te streven naar wat ze wil zijn. Niet enkel historisch, zoals in het multiculturalisme, maar ook in de toekomst. We moeten onszelf bevrijden van die zogezegde universalismen.

Welke rol dicht u Rusland toe bij het organiseren van de antimoderne krachten?

Het opzetten van antiglobalistische, of eerder antiwesterse, bewegingen en stromingen in heel de wereld bestaat uit verschillende stappen. Het gaat er fundamenteel om mensen te verenigen in hun strijd tegen het status quo. Dus, wat bedoel ik precies met status quo? Het gaat hier om een reeks met elkaar verbonden fenomenen die een belangrijke shift van moderniteit naar postmoderniteit met zich meebrengen. Het wordt vormgegeven door een shift van de unipolaire wereld, op de eerste plaats in de vorm van de invloed van de Verenigde Staten en West-Europa, naar een zogenaamde niet-polariteit, zoals ze zichtbaar wordt in de huidige impliciete hegemonie en in de revoluties die erdoor worden georchestreerd via handlangers, zoals bijvoorbeeld de oranje revoluties. Het hoofddoel van het Westen achter deze strategie is de definitieve controle over de planeet, niet enkel door middel van directe interventie, maar ook via een universalisering van zijn waarden, normen en ethiek.

Het status quo van de liberale hegemonie van het Westen is wereldomvattend geworden. Het gaat om de verwestersing van de hele mensheid. Dat betekent dat zijn normen, zoals de vrije markt, vrijhandel, liberalisme, parlementaire democratie, mensenrechten, en absoluut individualisme universeel zijn geworden. Deze normenset wordt verschillend geïnterpreteerd in verschillende regio’s van de wereld, maar het Westen beschouwt zijn specifieke interpretatie als vanzelfsprekend en de verspreiding ervan als onvermijdelijk. Dit is niets meer of minder dan een kolonisering van de geest. Het gaat hier om een nieuwe vorm van kolonialisme, een nieuwe vorm van macht, en een nieuwe vorm van controle, die in de praktijk wordt gebracht door middel van een netwerk. Iedereen die aangesloten is op het globale netwerk wordt onderworpen aan zijn code. Dit maakt deel uit van het postmoderne Westen, en wordt in snel tempo globaal doorgevoerd. De prijs die door een natie moet worden betaald om deel te kunnen uitmaken van het globale netwerk van het Westen is het aanvaarden van deze normen. Dit is de nieuwe hegemonie van het Westen. Het is een opschuiven van de open hegemonie van het Westen, zoals het kolonialisme en het openlijke imperialisme van het verleden, naar een meer impliciete, subtielere versie.

Om deze globale bedreiging van de mensheid te bestrijden is het belangrijk om alle verschillende krachten te verenigen, die zichzelf vroeger als anti-imperialistisch zouden hebben omschreven. Vandaag de dag moeten we onze vijand beter begrijpen. De vijand van vandaag leeft in het verborgene. Hij handelt door gebruik te maken van de normen en waarden van het westerse ontwikkelingspad en door de pluraliteit van andere culturen en beschavingen te negeren. Vandaag roepen we iedereen op die de geldigheid erkent van de specifieke waarden van niet-Westerse beschavingen, en waar er andere vormen van waarden bestaan, om op te staan tegen deze poging tot globale universalisering en verborgen hegemonie.

We kunnen in dezen spreken van een culturele, filosofische, ontologische en eschatologische strijd, omdat we in het status quo de essentie van het Donkere Tijdperk, of het grote paradigma terugvinden. Maar we moeten ook evolueren van een zuiver theoretische benadering naar een praktisch, geopolitiek niveau. En op dit geopolitiek niveau behoudt Rusland het potentieel, de middelen en de wil om deze uitdaging aan te gaan, omdat de Russische geschiedenis van oudsher instinctief gericht was tegen dezelfe horizon. Rusland is een grote macht, bij wie er een acuut bewustzijn heerst van wat er gaande is in de wereld, en bij wie men zich terdege bewust is van de eigen eschatologische missie. Het is daarom evident dat Rusland een centrale rol zou spelen in deze anti-status quo-coalitie. Rusland heeft zijn identiteit verdedigd tegen het katholicisme, het protestantisme en het moderne Westen tijdens de tsaristische periode, en tegen het liberale kapitalisme tijdens de Sovjettijd. Nu zien we een derde golf van deze strijd – de strijd tegen de postmoderniteit, het ultraliberalisme, en de globalisering. Maar dit keer is Rusland niet meer in staat om enkel en alleen te teren op zijn eigen mogelijkheden. Het kan niet langer alleen maar vechten onder het banier van het Orthodoxe Christendom. Het opnieuw invoeren van of het vertrouwen op de marxistische doctrine is evenmin een optie, aangezien het marxisme zelf één van de hoofdwortels van de destructieve ideeën van de postmoderniteit vormt.

Rusland is vandaag slechts één van de vele deelnemers aan deze globale strijd, en het kan deze strijd niet alleeen aan. We moeten alle krachten die zich tegen de westerse normen en het daarmee verbonden economische systeem verzetten, verenigen. We moeten derhalve allianties smeden met alle linkse sociale en politieke bewegingen die het status quo van het liberale kapitalisme in vraag stellen. We moeten tevens allianties smeden met alle identitaire krachten in eender welke cultuur die de globalisering om culturele redenen verwerpen. Vanuit dit standpunt moeten islamitische bewegingen, hindoebewegingen, of nationalistische bewegingen uit de hele wereld als bondgenoten aanzien worden. Hindoes, boeddhisten, christenen, en heidense identitairen in Europa, Amerika of Latijns-Amerika, of andere cultuurtypes, moeten samen één front vormen. De idee hierachter is dat ze allemaal aan één zeel moeten trekken tégen de ene vijand en het ene kwaad, en vóór een veelheid van concepten van wat goed is.

Waar we tegen zijn, zal ons verenigen, en waar we voor zijn, verdeelt ons. Daarom moeten we de nadruk leggen op wat we bestrijden. De gezamenlijke vijand verenigt ons, terwijl de positieve waarden, die elk van ons verdedigt, ons verdelen.  Daarom moeten we strategische allianties aangaan om de huidige wereldorde omver te werpen, wier kern kan omschreven worden als een mix van mensenrechten, anti-hiërarchisch sentiment, en politieke correctheid – alles wat het gezicht van het Beest, de anti-Christ of, in een andere context, de Kali-Yuga uitmaakt.

Hoe past traditionalistische spiritualiteit in de Eurazische agenda?

Er bestaan geseculariseerde culturen, maar in hun kern blijft de geest van de Traditie, religieus of anderssoortig, bestaan. Door de veelheid, de pluraliteit, en het polycentrisme van culturen te verdedigen, doen we een beroep op de principes van hun essentie, die we enkel in de spirituele tradities kunnen vinden. Maar wij proberen deze houding te koppelen aan de nood aan sociale gerechtigheid en aan de vrijheid om maatschappijen van elkaar te laten verschillen in de hoop op betere politieke regimes. De idee hierachter is het koppelen van de geest van de Traditie aan de eis van sociale gerechtigheid. En wij willen ons niet tegen deze sociale krachten keren, omdat dát precies de strategie van de hegemoniale macht is: links en rechts verdelen, culturen verdelen, etnische groepen verdelen, Oost en West, moslims en christenen verdelen. We roepen rechts en links op zich te verenigen, en zich niet af te zetten tegen traditionalisme en spiritualiteit, tegen sociale gerechtigheid en tegen sociaal dynamisme. We staan dus rechts noch links. Wij zijn tegen de liberale postmoderniteit. Het is onze bedoeling om alle fronten te verenigen en onze tegenstanders niet toe te laten ons te verdelen. Blijven we verdeeld, dan kunnen ze ons makkelijk beheersen. Verenigen we ons, dan is hun rijk onmiddellijk uit. Dat is onze globale strategie. En wanneer we de spirituele traditie met sociale gerechtigheid verbinden, dan slaat de paniek de liberalen onmiddellijk om het hart. Daar zijn ze onnoemelijk bang voor.

Welke spirituele traditie zou iemand die zich wenst in te zetten voor de Eurazische strijd moeten volgen, en vormt dit een essentieel element?

Men moet ernaar streven om een levend onderdeel van de maatschappij te worden waarin men leeft, en de traditie volgen die daar toonaangevend is. Ikzelf ben bijvoorbeeld Russisch-Orthodox. Dat is mijn traditie. In andere omstandigheden kunnen sommige individuen evenwel een ander spiritueel pad kiezen. Wat belangrijk is, is dat men wortels heeft. Er bestaat geen universeel antwoord. Indien iemand deze spirituele basis verwaarloost, maar zich toch wil inschakelen in de strijd, is het goed mogelijk dat hij of zij gaandeweg een diepere betekenis vindt. Het is onze overtuiging dat onze vijand dieper wortelt dan in het zuiver menselijke. Het Kwaad ligt dieper dan de mensheid, hebzucht of uitbuiting. Zij die aan de zijde van het Kwaad vechten, zijn zij die geen spirituele basis hebben. Zij die zich tegen die basis verzetten, kunnen haar in de strijd tegenkomen. Of misschien niet. Het blijft een open vraag – er bestaat geen verplichting. Het valt aan te raden, maar het is geen noodzakelijke voorwaarde.

Wat vindt u van Europees Nieuw-Rechts en Julius Evola? En, meer bepaald, van hun beider afkeer van het Christendom?

Het is aan de Europeanen om te beslissen welke soort spiritualiteit zij willen doen herleven. Voor ons, Russen, is dat het Orthodoxe Christendom. Wij beschouwen onze traditie als authentiek.  Wij beschouwen onze traditie als een voortzetting van de vroegere, voorchristelijke tradities van Rusland, zoals die tot uiting komen in onze verering van heiligen en iconen, naast andere aspecten. Daarom is er geen tegenstelling tussen onze eerdere en latere tradities. Evola keert zich af van de christelijke traditie van het Westen. Wat interessant is, is zijn kritiek op de desacralisering van het westerse christendom. Dit strookt precies met de orthodoxe kritiek op het westerse christendom. Het is duidelijk dat de secularizering van het westerse christendom de mensheid liberalisme oplevert. De secularizering van de orthodoxe religie geeft ons communisme. Individualisme staat tegenover collectivisme. Voor ons ligt het probleem niet aan het christendom zelf, zoals in het Westen. Evola ondernam een poging om de Traditie te herstellen. Nieuw-Rechts tracht eveneens de westerse traditie te herstellen, wat heel goed is. Maar als Russisch-Orthodoxe kan ik niet beslissen welk pad Europa moet volgen, aangezien we verschillende waardensystemen hebben. Wij willen de Europeanen niet vertellen wat ze moeten doen, en we willen niet dat de Europeanen dat met ons doen. Als Eurazisten aanvaarden we elke oplossing. Aangezien Evola Europeaan was, kon hij discussiëren en voorstellen doen over de juiste oplossing voor Europa. Éénieder van ons kan slechts zijn of haar persoonlijke mening formuleren. Maar ik ben wel tot de conclusie gekomen dat we meer gemeen hebben met Nieuw-Rechts dan met de katholieken. Ik deel veel visies van Alain de Benoist. Ik beschouw hem als de grootste intellectueel in het Europa van vandaag. Dat is niet het geval voor de moderne katholieken. Zij willen Rusland bekeren, en dat botst met onze plannen. Nieuw-Rechts wil het Europese heidendom niet opleggen aan anderen. Ik beschouw Evola ook als een meester en als een symbolische figuur van de eindrevolte en de grootse wederopleving, net zoals Guénon. In mijn ogen zijn deze beide heren de essentie van de Westerse traditie in deze donkere tijd.

Eerder zei u dat Eurazisten zouden moeten samenwerken met bepaalde jihadistische groepen. Maar deze hebben de neiging om universalistisch te zijn, en hun doel is het opleggen van de islamitische wet aan de hele wereld. Wat zijn de toekomstkansen van een dergelijke coalitie?

Jihadi’s zijn universalisten, net zoals seculiere westerlingen die globalizering nastreven. Maar zij zijn niet identiek, want het westerse project probeert alle anderen te domineren en zijn hegemonie overal op te leggen. Het valt ons elke dag direct aan via de globale media, via modeverschijnselen, door voorbeelden te stellen voor de jeugd, enzovoort. We worden ondergedompeld in deze globale culturele hegemonie. Het salafistisch universalisme is een soort marginaal alternatief. Men mag hen niet over dezelfde kam scheren als zij die streven naar globalisering. Zij vechten ook tegen onze vijand. Wij willen van geen enkele universalistische stroming weten, maar er zijn universalisten die ons vandaag aanvallen en winnen, en er zijn ook nonconformistische universalisten die de hegemonie van het Westen, de liberale universalisten, bevechten, en derhalve hic et nunc tactische bondgenoten zijn.  Vooraleer hun project van een wereldomvattende islamitische staat kan worden gerealiseerd, zullen we nog vele veldslagen en conflicten uitvechten. En de globale liberale dominantie is een feit. Daarom roepen we iedereen op om samen met ons te strijden tegen deze hegemonie, dit status quo. Ik heb het liever over de realiteit van vandaag, dan over wat de toekomst zou kunnen brengen. Iedereen die zich kant tegen liberale hegemonie is nu onze medestander. Dat heeft niets vandoen met moraliteit, wel met strategie. Carl Schmitt zei ooit dat politiek begint met het onderscheid tussen vrienden en vijanden. Er bestaan geen eeuwige vrienden en geen eeuwige vijanden. Wij vechten tegen de bestaande universele hegemonie. Iedereen vecht daartegen voor zijn of haar eigen waardensysteem.

Om de samenhang te bewaren moeten we ook werk maken van een verlenging, verbreding, en van een bredere alliantie. Ik loop niet hoog op met de salafisten. Het zou veel beter zijn om samen te werken met traditionele Sufi’s, bijvoorbeeld. Maar ik werk liever samen met de salafisten tegen een gemeenschappelijke vijand dan energie te verspillen door hen te bevechten en de grotere berdreiging te negeren.

Wie voor de globale liberale hegemonie is, is de vijand. Wie ertegen is, is een vriend. De eerste is geneigd om deze hegemonie te aanvaarden; de andere revolteert.

Wat is, in het licht van de recente gebeurtenissen in Libië, uw persoonlijke opvatting over Khaddafi?

President Medvedev beging een ware misdaad tegen Khaddafi en hielp mee met het in de stijgers zetten van een hele reeks interventies in de Arabische wereld. Dit was een echte misdaad, begaan door onze President. Aan zijn handen kleeft bloed. Hij is een collaborateur van het Westen. De verantwoordelijkheid voor de misdaad - die de moord op Khaddafi effectief was - ligt gedeeltelijk bij hem. Wij Eurazisten verdedigden Khaddafi, niet omdat we fans of supporters van hem of zijn Groene Boekje waren, maar om principiële redenen. Achter de opstand in Libië ging westerse hegemonie schuil, en die legde een bloedige chaos op. Toen Khaddafi viel, werd de westerse hegemonie sterker. Dat was onze nederlaag. Maar niet de eindnederlaag. Deze oorlog kent vele fasen. We verloren een veldslag, maar niet de oorlog. En misschien ontstaat er wel iets nieuws in Libië, want de situatie is momenteel heel onstabiel. Zo versterkte de Irakoorlog bijvoorbeeld de invloed van Iran in de regio, in tegenstelling tot wat de westerse hegemonisten oorspronkelijk hadden uitgestippeld.

Gezien de situatie in Syrië momenteel, herhaalt het scenario zichzelf. Al is het wel zo dat, met Poetin terug aan de macht, de situatie er veel beter voor staat. Hij is op zijn minst consequent in zijn steun aan President al-Assad. Mogelijk is dit niet voldoende om een westerse interventie in Syrië af te houden. Ik pleit ervoor dat Rusland zijn bondgenoot daadkrachtiger zou steunen met wapens, financiële middelen, enzovoort. De val van Libië was een nederlaag voor Rusland. De val van Syrië zou opnieuw een mislukking zijn.

Wat denkt u van Vladimir Poetin, en hoe is uw verstandhouding met hem?

Hij was veel beter dan Jeltsin. Hij redde Rusland in de jaren ’90 van de volledige ineenstorting. Rusland stond op de rand van de catastrofe. Vóór de komst van Poetin hadden liberalen westerse stijl het voor het zeggen in de Russische politiek. Poetin herstelde de soevereiniteit van de Russische staat. Daarom werd ik een aanhanger van hem. Maar na 2003 zette Poetin zijn patriotische, Eurazische hervormingen stop, schoof hij de ontwikkeling van een echte nationale strategie opzij, en begon met het accomoderen van de economische liberalen die van Rusland een deel van het globaliseringsproject wilden maken. Daardoor verloor hij aan legitimiteit, en werd ik steeds kritischer ten opzichte van hem. In bepaalde gevallen werkte ik samen met mensen uit zijn entourage om hem te steunen in bepaalde beleidsdomeinen, en in andere domeinen stond ik lijnrecht tegenover hem. Toen Medvedev werd uitverkoren als zijn opvolger was dat een catastrofe, omdat de mensen rond hem allemaal liberalen waren. Ik was tegen Medvedev. Ik kantte me tegen hem, deels vanuit een Eurazistisch standpunt. Nu komt Poetin terug. Alle liberalen zijn tegen hem, en alle prowesterse krachten zijn tegen hem. Maar hijzelf heeft zijn houding tegenover hen nog niet verduidelijkt. Maar hij moet absoluut de steun van het Russische volk opnieuw verwerven. Anders kan hij onmogelijk verder doen. Hij bevindt zich in een kritische situatie, al lijkt hij dat niet te vatten. Hij twijfelt nog om de patriotische kant te kiezen. Hij denkt nog steun te kunnen vinden bij de liberalen, wat volkomen verkeerd is. Ik sta tegenwoordig minder kritisch tegenover hem dan vroeger, maar ik denk dat hij zich in een lastig parket bevindt. Indien hij verder aarzelt, zal hij mislukken. Ik heb recent een boek gepubliceerd, Putin Versus Putin, want zijn grootste vijand is hijzelf. Omdat hij twijfelt, verliest hij steeds meer de steun van het volk. Het Russische volk voelt zich bedrogen door hem. Hij is zoiets als een autoritaire leider zonder autoritair charisma. Ik heb in bepaalde gevallen met hem samengewerkt, maar heb mij ook tegen hem gekant in andere gevallen. Ik heb contact met hem. Maar er cirkelen zovele krachten rond hem. De liberalen en de Russische patrioten rondom hem zijn niet bepaald briljant te noemen, op intellectueel vlak. Daarom kan hij enkel vertrouwen op zichzef en zijn intuïtie. Maar intuïtie mag niet de enige bron van politieke beleidskeuzes en strategie zijn. Indien hij terug aan de macht komt zal hij gedwongen worden om terug te keren naar zijn vroeger antiwesters beleid, omdat onze maatschappij van nature antiwesters is. Rusland heeft een lange traditie van opstand tegen vreemde indringers en van hulp aan anderen die tegen onrechtvaardigheid strijden, en het Russische volk ziet de wereld door deze lens. Het zal geen genoegen nemen met een leider die bestuurt zonder rekening te houden met deze traditie.

Bron: http://www.counter-currents.com/2012/07/interview-with-alexander-dugin/.

 

A Liçao de Carl Schmitt

A Liçao de Carl Schmitt
 
por Guillaume Faye e Robert Steuckers (1981)
 
 
 
Nós nos encontramos com Carl Schmitt na aldeia de Plettenburg, seu local de nascimento e retiro. Por quatro horas notáveis nós conversamos com o homem que permanece inquestionavelmente como o maior pensador político e jurídico de nosso tempo. "Nós fomos colocados para pastar", disse Schmitt. "Nós somos como animais domésticos que desfrutam dos benefícios do campo cercado ao qual somos designados. O espaço é conquistado. As fronteiras são fixas. Não há nada mais para descobrir. É o reino do status quo..."
 
Schmitt sempre alertou contra essa ordem congelada, que se estende sobre a Terra e arrasa soberanias políticas. Já em 1928, em O Conceito do Político, ele detecta nas ideologias universalistas, aquelas "dos Direitos, ou Humanidade, ou Ordem, ou Paz", o projeto de transformar o planeta em um tipo de agregado econômico despolitizado que ele compara a um "ônibus com seus passageiros" ou um "prédio com seus ocupantes". E nessa premonição de um mundo da morte de nações e culturas, o culpado não é o marxismo mas as democracias liberais e comerciais. Assim Schmitt oferece uma das críticas mais agudas e perspicazes do liberalismo, bem mais profunda e original do que as dos "anti-democratas" da velha direita reacionária.
 
Ele também continua a maneira "realista" de análise da política e do estado, na tradição de Bodin, Hobbes e Maquiavel. Igualmente removido do liberalismo e das teorias totalitárias modernas (bolchevismo e fascismo), a profundidade e a modernidade de suas opiniões o tornam o teórico jurídico constitucional e político contemporâneo mais importante. É por isso que podemos segui-lo, ao mesmo tempo é claro tentando ir além de suas análises, como seu discípulo francês Julien Freund, no ápice de suas capacidades, já fez.
 
A jornalidade intelectual do teórico jurídico do Reno começou com reflexões sobre Direito e política prática às quais ele devotou duas obras, em 1912 e 1914, ao fim de seus estudos acadêmicos em Estrasburgo. Após a guerra, tendo se tornado professor de Direito nas universidades de Berlim e Bonn, seus pensamentos focaram em ciência política. Schmitt, contra as filosofias liberais da Direita, se recusou a separá-la da política.
 
Seu primeiro trabalho de teoria política, Romantismo Político (1919), é devotado a uma crítica do romantismo político ao qual ele opõe o realismo. Para Schmitt, os ideais milenaristas dos comunistas revolucionários e os delírios völkisch dos reacionários pareciam igualmente inadequados ao governo do povo. Sua segunda grande obra teórica, A Ditadura (1921), constitui, como Julien Freund escreve, "um dos estudos mais completos e relevantes desse conceito, cuja história é analisada desde a época romana até Maquiavel e Marx".
 
Schmitt distingue "ditadura" de "tirania" opressiva. A ditadura aparece como um método de governo dirigido a confrontar emergências. Na tradição romana, a função do ditador era confrontar condições excepcionais. Mas Maquiavel introduz uma prática diferente; ele ajuda a visualizar "o Estado moderno", fundado no racionalismo, na tecnologia e no papel poderoso de um executivo complexo: esse executivo não mais depende do soberano singular.
 
Schmitt demonstra que com o jurista francês Jean Bodin, a ditadura assume a forma de uma "prática dos comissários" que emergiu nos séculos XVI e XVII. Os "comissários" são delegados onipotentes do poder central. O absolutismo monárquico, estabelecido sobre seus subordinados, como o modelo rousseauniano do contrato social que delega poder absoluto aos detentores da "vontade geral" implantada pela revolução francesa, constitui a fundação de formas contemporâneas de ditadura.
 
Desde esse ponto de vista, a ditadura moderna não está conectada com qualquer ideologia política particular. Contrariamente às análises dos constitucionalistas atuais, especialmente Maurice Duverger, a "democracia" não é mais livre de ditadura do que qualquer outra forma de poder estatal. Os democratas estão simplesmente se iludindo pensando que eles são imunes do recurso à ditadura e que eles reconciliam poder executivo real com pragmatismo e as transações dos sistemas parlamentares.
 
Em um estudo fundamental sobre parlamentarismo, A Crise da Democracia Parlamentar (1923), Schmitt pondera a identificação entre democracia e parlamentarismo. Para ele, a democracia parece ser um princípio ideológico e abstrato que mascara modalidades específicas de poder, uma posição próxima àquelas de Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca. O exercício de poder na "democracia" está sujeito a uma concepção racionalista do estado que justificava, por exemplo, a ideia da separação de poderes, o diálogo supostamente harmônico entre partidos, e pluralismo ideológico. É também a racionalidade da história que funda a ditadura do proletariado. Contra as correntes democráticas e parlamentares, Schmitt coloca as correntes "irracionalistas", particularmente Georges Sorel e sua teoria de violência, bem como todas as críticas não-marxistas da sociedade burguesa, por exemplo Max Weber.
 
Essa ideologia burguesa liberal engana a todos ao ver toda atividade política segundo as categorias da ética e da economia. Essa ilusão, ademais, é compartilhada por ideologias liberais ou socialistas marxistas: a função do poder público não é nada mais além de econômica e social. Valores espirituais, históricos e militares não são mais legítimos. Somente a economia é moral, o que torna possível validar o individualismo comercial e ao mesmo tempo invocar ideais humanos: a Bíblia e o negócio. Essa moralização da política não só destrói toda moralidade verdadeira, mas transforma a unidade política em uma "sociedade" neutralizada onde a função soberana não é mais capaz de defender o povo pelo qual ela é responsável.
 
Por contraste, a abordagem de Schmitt consiste em analisar o fenômeno político independentemente de todas as pressuposições morais. Como Maquiavel e Hobbes, com o qual ele é normalmente comparado, Schmitt renuncia a apelos aos belos sentimentos e à soteriologia dos fins. Sua filosofia é tão oposta à ideologia do Iluminismo (Locke, Hume, Montesquieu, Rousseau, etc.) e aos vários socialismos marxistas quanto ela é ao humanismo político cristão. Para ele, essas ideologias são utópicas em sua cautela em relação ao poder e tendem a esvaziar o político por sua identificação com o mal, mesmo que ele seja permitido temporariamente - como no caso do marxismo.
 
Mas a essência da crítica de Schmitt se remete ao liberalismo e ao humanismo, que ele acusa de falsidade e hipocrisia. Essas teorias veem a atividade do poder público como uma administração puramente de rotina dedicada a realizar a felicidade individual e a harmonia social. Elas são fundadas no desaparecimento final da política enquanto tal e no fim da história. Elas desejam tornar a vida coletiva puramente prosaica, mas conseguem somente criar selvas sociais dominadas pela exploração econômica e incapazes de dominar circunstâncias imprevistas.
 
Governos sujeitos a esse tipo de liberalismo estão são sempre frustrados em seus sonhos de transformar a política em administração pacífica: outros Estados, motivados por intenções hostis, ou fontes internas de subversão política, sempre emergem em momentos imprevistos. Quando um Estado, pelo idealismo ou por um moralismo equívoco, não mais situa sua vontade política soberana acima de todo o resto, preferindo ao invés a racionalidade econômica ou a defesa de ideais abstratos, ele também desiste de sua independência e de sua sobrevivência.
 
Schmitt não acredita no desaparecimento do político. Qualquer tipo de atividade pode assumir uma dimensão política. O político é um conceito fundamental de antropologia coletiva. Enquanto tal, a atividade política pode ser descrita como substancial, essencial, duradoura através do tempo. O Estado, por outro lado, desfruta somente de autoridade condicional, ou seja, uma forma contingente de soberania. Assim o Estado pode desaparecer ou ser despolitizado ao ser privado do político, mas o político - enquanto substancial - não desaparece.
 
O Estado não pode sobreviver a não ser que mantenha um monopólio político, ou seja, o poder exclusivo de definir os valores e ideais pelos quais os cidadãos concordarão em entregar suas vidas ou matar legalmente seus vizinhos - o poder de declarar guerra. De outro modo, partisans assumirão a atividade política e tentarão constituir uma nova legitimidade. Esse risco ameaça particularmente os Estados burocráticos das democracias sociais e liberais modernas nas quais a guerra civil só é impedida pela influência enervante da sociedade de consumo.
 
Essas ideias são expressadas em O Conceito do Político, a obra mais fundamental de Schmitt, publicada pela primeira vez em 1928, revisada em 1932, e esclarecida em 1963 por seu corolário Teoria do Partisan. A atividade política é definida ali como o produto de uma polarização ao redor de uma relação de hostilidade. Um dos critérios fundamentais de um ato político é sua habilidade de mobilizar uma população pela designação de seu inimigo, o que pode se aplicar a um partido bem como a um Estado. Omitir tal designação, particularmente por idealismo, é renunciar ao político. Assim a tarefa de um Estado sério é impedir que partisans tomem o poder de designar inimigos dentro da própria comunidade, ou mesmo como o próprio Estado.
 
Sob circunstância alguma pode a política ser baseada na administração de coisas ou renunciar sua dimensão polêmica. Toda soberania, como toda autoridade, é forçada a designar um inimigo de modo a ser bem sucedida em seus projetos; aqui as ideias de Schmitt encontram a pesquisas dos etologistas sobre comportamento humano inato, particularmente Konrad Lorenz.
 
Por causa de sua concepção "clássica" e maquiaveliana do político, Schmitt sofreu perseguição e ameaças sob os nazistas, para os quais o político era, ao contrário, a designação do "camarada" (Volksgenosse).
 
A definição schmittiana do político nos permite compreender que o debate político contemporâneo é despolitizado e conectado com shows eleitorais. O que é realmente político é o valor pelo qual se está disposto a sacrificar a própria vida; pode ser muito bem a própria língua ou cultura. Schmitt escreve nessa conexão que "um sistema de organização social dirigido somente para o progresso da civilização" não possui "um programa, ideal, padrão ou finalidade que pode conferir o direito de dispor da vida física de outros". A sociedade liberal, fundada no consumo de massa, não pode demandar que se mate ou morra por ela. Ela se apoia em uma forma apolítica de dominação: "É precisamente quando ela permanece apolítica", escreve Schmitt, "que a dominação de homens apoiada em uma base econômica, evitando qualquer aparência ou responsabilidade políticas, se prova uma impostura terrível".
 
O economismo liberal e o "pluralismo" mascaram a negligência do Estado, a dominação das castas comerciais, e a destruição de nações ancoradas em uma cultura e uma história. Junto a Sorel, Schmitt apela por uma forma de poder que não renuncia a seu exercício pleno, que demonstra sua autoridade política pelos meios normais que pertencem a ele: poder, restrição, e, em casos excepcionais, violência. Ao ignorar esses princípios a República de Weimar permitiu a ascensão de Hitler; o totalitarismo tecno-econômico do capitalismo moderno também se apoia na rejeição ideológica da ideia de poder estatal; esse totalitarismo é impossível de evitar porque ele é proclamado humano e é também baseado na ideia dupla de pluralismo social e individualismo, que põe as nações à mercê da dominação tecnocrática.
 
A crítica schmittiana do pluralismo interno concebido por Montesquieu, Locke, Laski, Cole e toda a escola liberal anglo-saxônica, objetiva defender a unidade política das nações, que é a única garantia de proteção cívica e das liberdades. O pluralismo interno leva à guerra civil latente ou aberta, à competição feroz de grupos de interesses econômicos e facções, e finalmente à reintrodução dentro da sociedade da distinção amigo-inimigo que os Estados europeus desde Bodin e Hobbes haviam deslocado para o exterior.
 
Tal sistema naturalmente apela à ideia de "Humanidade" para se livrar de unidades políticas. "A humanidade não é um conceito político", escreve Schmitt, que acrescenta:
 
"A ideia de Humanidade em doutrinas baseadas nas doutrinas liberais e individualistas de direito natural é uma construção social ideal de natureza universal, abarcando todos os homens sobre a terra...que não será realizada até que qualquer possibilidade genuína de combate seja eliminada, tornando qualquer agrupamento em termos de amigos e inimigos impossível. Essa sociedade universal não mais conhecerá nações... O conceito de humanidade é um instrumento ideológico particularmente útil para a expansão imperialista, e em sua forma ética e humana, ela é especificamente um veículo de imperialismo econômico... Um nome tão sublime implica certas consequências para aquele que o porta. De fato, falar em nome da Humanidade, invocá-la, monopolizá-la, demonstra uma pretensão chocante: negar a humanidade do inimigo, declará-lo fora do direito e fora da Humanidade, e assim finalmente empurrar a guerra aos extremos da desumanidade".
 
Definir a política em termos da categoria do inimigo, recusar o igualitarismo humanitário, não leva necessariamente ao desprezo pelo homem ou ao racismo. É bem o contrário. Reconhecer a dimensão polêmica das relações humanas e o homem como "um ser dinâmico e perigoso", garante o respeito por qualquer adversário concebido como o Outro cuja causa não é menos legítima que a nossa.
 
Essa ideia se repete usualmente no pensamento de Schmitt: as ideologias modernas que reivindicam verdade universal e consequentemente consideram o inimigo como absoluto, como um "desvalor absoluto", levam ao genocídio. Elas são, ademais, inspiradas pelo monoteísmo (e Schmitt é um pacifista cristão e um converso). Schmitt afirma com boas razões que a concepção europeia convencional que validava a existência do inimigo e admitia a legitimidade da guerra - não pela defesa de uma causa "justa", mas como uma eterna necessidade das relações humanas - causava menos guerras e induzia o respeito pelo inimigo considerado como adversário (como hostis e não inimicus).
 
Os seguidores de Schmitt, estendendo e refinando seu pensamento, cunharam junto a Rüdiger Altmann o conceito do Ernstfall (caso emergencial), que constitui outro critério fundamental do político. A soberania política e a credibilidade de uma nova autoridade política é baseada na capacidade de encarar e solucionar casos de emergência. As ideologias políticas dominantes, profundamente fincadas no hedonismo e no desejo por segurança, querem ignorar a emergência, o golpe do destino, o imprevisto. A política digna do nome - e essa ideia pulveriza as categorias ideológicas abstratas de "direita" e "esquerda" - é aquela que, secretamente, responde ao desafio do caso de emergência, salva a comunidade de atribulações e tempestades imprevistas, e assim autoriza a mobilização total do povo e uma intensificação de seus valores.
 
Concepções liberais de política veem o Ernstfall meramente como a exceção e a "normalidade legal" como a regra. Essa visão das coisas, inspirada pela filosofia teleológica da história de Hegel, corresponde à dominação da burguesia, que prefere segurança a dinamismo histórico e ao destino do povo. Ao contrário, segundo Schmitt, a função do soberano é sua capacidade de decidir o estado de exceção, que de modo algum constitui uma anomalia, mas sim uma permanente possibilidade. Esse aspecto do pensamento de Schmitt reflete suas inspirações primariamente francesas e espanholas (Bonald, Donoso Cortès, Bodin, Maistre, etc.) e torna possível localizá-lo, junto com Maquiavel, na grande tradição latina da ciência política.
 
Em Legalidade e Legitimidade, Schmitt, como discípulo de Hobbes, sugere que a legitimidade precede o conceito abstrato de legalidade. Um poder é legítimo se ele pode proteger a comunidade sob seus cuidados pela força. Schmitt acusa a concepção idealista e "jurídica" de legalidade por autorizar Hitler a chegar ao poder. O legalismo tende à renúncia do poder, que Schmitt chama de "política da não-política" (Politik des Unpolitischen), a política que não atende a suas responsabilidades, que não formula uma escolha em relação ao destino coletivo. "Aquele que não possui o poder de proteger ninguém", escreve Schmitt em O Conceito do Político, "também não possui o direito de demandar obediência. E inversamente, aquele que busca e aceita o poder não possui o direito de recusar obediência".
 
Essa dialética de poder e obediência é negada pelo dualismo social, que arbitrariamente opõe sociedade e a função soberana e imagina, contrariamente a toda experiência, que exploração e dominação são os efeitos políticos do "poder" enquanto eles emergem muito mais normalmente da dependência econômica.
 
Assim Schmitt elabora uma crítica do Estado dualista do século XIX com base nas concepções de John Locke e Montesquieu objetivando a uma separação entre a esfera do Estado e a esfera privada. De fato, as tecnocracias modernas, historicamente resultando das instituições de representação parlamentar, experimentam interpenetrações e oposições entre o privado e o público, como demonstrado por Jürgen Habermas. Tal situação desestabiliza o indivíduo e enfraquece o Estado.
 
Segundo Schmitt, é a fraqueza das democracias que permitiu o estabelecimento de regimes unipartidários, como ele explica em Estado, Movimento, Povo. Esse tipo de regime constitui a revolução institucional do século XX; de fato, ele é hoje o regime mais difundido no mundo. Somente a Europa Ocidental e a América do Norte preservaram a estrutura pluralista da democracia tradicional, mas meramente como ficção, já que o poder verdadeiro é econômico e técnico.
 
O Estado unipartidário tenta reconstituir a unidade política da nação, segundo uma estrutura tríplice: o Estado inclui funcionários públicos e as forças armadas; o povo não é uma população estatística mas uma entidade que é politizada e fortemente organizada em instituições intermediárias; o partido coloca esse mecanismo em movimento e constitui um portal de comunicação entre o Estado e o Povo.
 
Schmitt, que retorna de novo e de novo ao nazismo, ao stalinismo, às teocracias e aos totalitarismos humanitários, obviamente não endossa o Estado unipartidário. Ele não defende qualquer "regime" específico. Na velha tradição realista latina herdada de Roma, Schmitt quer um executivo que seja tanto poderoso como legítimo, que não "ideologize" o inimigo e possa, em casos reais fazer uso da força, que possa fazer do Estado a "auto-organização da sociedade".
 
A guerra assim se torna um tema da teoria política. Schmitt está interessado na geopolítico como extensão natural da política. Para ele, a verdadeira política, a grande política, é a política externa, que culmina na diplomacia. Em O Nomos da Terra (1951), ele demonstra que o Estado segue a concepção europeia de política desde o século XVI. Mas a Europa se tornou decadente: o Estado burocrático foi despolitizado e não mais permite a preservação da história do povo europeu; o ius publicum europaeum que decidia as relações interestatais está declinando em favor de ideologias globalistas e pacifistas que são incapazes de fundar um direito internacional eficaz. A ideologia dos direitos humanos e o suposto humanitarismo das instituições internacionais estão paradoxalmente preparando um mundo no qual a força vem antes do direito. Inversamente, uma concepção realista das relações entre Estados, que permite e normaliza o conflito, que reconhece a legitimidade da vontade de poder, tende a civilizar a relação entre nações.
 
Schmitt é, junto com Mao Tsé-tung, o maior teórico moderno da guerra revolucionário e da figura enigmática do guerrilheiro que, nessa era de despolitização dos Estados, assume a responsabilidade do político, "ilegalmente" designa seus inimigos, e de fato nubla a distinção entre guerra e paz.
 
Tal "falso pacifismo" é parte de um mundo em que autoridades políticas e soberanias independentes são apagadas por uma civilização mundial mais alienadora que qualquer tirania. Schmitt, que influenciou a constituição da Quinta República Francesa - a constituição francesa que é a mais inteligente, mais política, e a menos inspirada pelo idealismo do Iluminismo - nos dá essa mensagem: liberdade, humanidade, paz são somente quimeras que levam a opressões invisíveis. As únicas liberdades que contam - seja de nações ou indivíduos - são aquelas garantidas pela força legítima de uma autoridade política que cria lei e ordem.
 
Carl Schmitt não define os valores que mobilizam o político e legitimam a designação do inimigo. Esses valores não devem ser definidos por ideologias - sempre abstratas e portões para o totalitarismo - mas por mitologias. Nesse sentido, o funcionamento do governo, o puramente político, não é suficiente. É necessário acrescentar a dimensão "religiosa" da primeira função, como definida na tripartição indo-europeia. Nos parece que é assim que se deve completar a teoria política de Schmitt. Porque se Schmitt constrói uma ponte entre antropologia e política, ainda é necessário construir outra entre política e história.
 

mardi, 20 novembre 2012

Robert Nisbet oltre l'etichetta di conservatore

nisbet.jpgRobert Nisbet oltre l'etichetta di conservatore

Dal Secolo d'Italia del 16 settembre 2012

Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.be/

Conservatore a chi? Definizione mal tollerata e generalmente rispedita al mittente. Calzata talvolta per mero spirito di provocazione. Eppure il conservatorismo è qualcosa di più che non un mero temperamento stravagante. E soprattutto non è (solo) quel che i luoghi comuni vorrebbero: la caricatura del reazionario. A ricordarcelo è il libro di Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale (Mimesis, pp. 180, € 16). 
 
Copertina_Pupo_-_Nisbet.jpgAutore di libri di culto come The Quest for Community, bibbia della primavera conservatrice a stelle e strisce dei primi anni Cinquanta, pubblicata in Italia nel 1957 dalle Edizioni di Comunità con il titolo La comunità e lo Stato, Nisbet, considerato non del tutto a ragione l’ideologo principale del reaganismo, da noi è pressochè sconosciuto, in particolare tra i più giovani. Il testo di Pupo, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’università cosentina, colma questa lacuna e ne propone la riscoperta attraverso un’agile ma completa introduzione al pensiero politico, sottolineandone sin dal titolo l’originalità. Nisbet, infatti, ha indagato il carattere meno conosciuto del conservatorismo: la socialità, riconducibile non solo alla diffusa ricerca dell’identità e dell’autorità delle lealtà tradizionali, ma anche alle attenzioni verso gli indiscutibili benefici del welfare state e all’individuo inteso non come soggetto astratto ma come persona che nasce, vive e muore in una comunità di appartenenza. L’intuizione del sociologo californiano, ammesso che possa così definirsi un’attività di studio pluridecennale, è proprio nell’individuare nel declino delle comunità il più grande problema sociale e politico del nostro tempo e nella relativa “domanda di comunità” la risposta al malessere della società occidentale. Di qui la necessità di preservare, tra Stato e Mercato, una sfera di libertà basata su un tessuto di relazioni comunitarie, dalla scuola alla famiglia, dall’amministrazione locale alla piccola impresa economica. La moderna storia dell’occidente, a partire dalla rivoluzione industriale e dalla rivoluzione francese, altro non è – spiega Nisbet – che la storia del disfacimento delle comunità e del concomitante sviluppo di uno Stato politico che, sin dalla sua nascita, non solo riconosce come cittadini soltanto individui isolati e non più gruppi di uomini ma pretende di dirigere la vita di ogni uomo, sia nella sfera pubblica che in quella privata, indebolendo le lealtà umane fondate sulla fede, sul lavoro, sulla parentela, sull’etnia, sul luogo, sull’interesse condiviso e sul volontariato. Così facendo – ne conclude il sociologo – viene meno quella saldatura sociale che è stata la vera protagonista della crescita dell’America e degli altri paesi occidentali. Perché non è stato l’individuo solitario ma i gruppi di individui, ossia le comunità, le famiglie, i parentadi, i villaggi, le associazioni di volontariato, a realizzare scuole, strade, chiese, imprese comuni, istituzioni, regioni e nazioni. Quando politica ed economia recidono il legame individuo-società, l’individuo rischia di perdere, con il senso responsabilità verso l’altro, la sua stessa libertà. La libertà autentica, per Nisbet, è invece quella che nasce spontaneamente nella società pluralistica, dove una varietà di gruppi sociali intermedi tra l’individuo e lo Stato detiene ruoli, funzioni e responsabilità reali e autonomie sufficienti ad offrire al singolo individuo un senso di protezione, finalità, identità, appartenenza. Tutto ciò al fine di evitare che uomini nominalmente liberi diventino spiritualmente sterili, emozionalmente vuoti e sempre più soli, oltre che vulnerabili ai richiami di uno Stato non più comunità di comunità ma paternalistico, onnicomprensivo e autoritario. Critica che Nisbet, però, rivolge anche al liberalismo e a chi riteneva (e ritiene) che l’unica alternativa a a statalismo e dirigismo potesse essere rappresentata da un mercato sempre più incontrollato, un mercato che “deresponsabilizzando” l’individuo, finisce per renderlo schiavo delle grandi istituzioni politiche ed economiche contemporanee.
 
Di fronte a una crisi che è valoriale e anche ecomomica, il conservatorismo sociale di Nisbet, libero dal nostalgismo e dal passatismo, ponendo al centro della sua proposta la difesa dei corpi intermedi ma anche pronto al dialogo con la socialdemocrazia antimassimalista, cui è accomunato dall’attitudine a combattere gli eccessi del laissez-faire, dell’individualismo liberale e del capitalismo, rimane una via da riscoprire per affronate la complessità del presente.
 
Roberto Alfatti Appetiti

mercredi, 14 novembre 2012

Guerra y saber político:Clausewitz y Günter Maschke

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Guerra y saber político:
Clausewitz y Günter Maschke

Antonio Muñoz Ballesta

http://nodulo.org/

Conviene, especialmente cuando suenan tambores de guerra, no malinterpretar a Carlos Clausewitz (1780-1831), y reconocer la conclusión realista del filósofo militar prusiano, que la Guerra es la expresión o la manifestación de la Política

«George Orwell advertía en una ocasión que, en las sociedades libres, para poder controlar la opinión pública es necesaria una «buena educación», que inculque la comprensión de que hay ciertas cosas que no «estaría bien decir» –ni pensar, si la educación realmente tiene éxito–.» (Noam Chomsky en Tarragona, octubre de 1998)

A José María Laso, luchador en la paz y en la guerra

1

La inminente guerra del Imperio realmente existente en el planeta, EEUU, contra Irak, y contra otros países del llamado «Eje del mal», entre los que se encuentra, según expresión de Gabriel Albiac, el «manicomio militarizado» de Corea del Norte, y que puede provocar la primera Guerra Nuclear en la que los dos contendientes utilicen efectivamente armas atómicas –aunque en la Historia contemporánea se ha estado varias veces al borde de la misma, y no solamente en la crisis de los misiles de Cuba, sino también hace unos meses en la guerra silenciada entre Pakistán y la India–, requiere que nos dispongamos a contemplarla con las mejores armas conceptuales posibles (pidiendo, a la misma vez, a Dios, a Alá, o a Yahvè, según la religión de cada uno, que «el conflicto bélico» no nos afecte individualmente).

¿Qué mejor arma conceptual, para nosotros, que delimitar lo que sea verdaderamente la «guerra» desde el punto de vista del «saber político»?

Porque las guerras no son una «maldición divina o diabólica» a pesar de que las consecuencias en las víctimas humanas, y la destrucción que provocan, así lo sea.

Las guerras pertenecen también, como nos recuerda Clausewitz, al «ámbito de la acción humana», y aunque siempre han estado envueltas en las formas artísticas de su tiempo y han sido el ámbito en el que se han realizado avances técnicos, tecnológicos y científicos de eficaz transcendentalidad –en el sentido del materialismo filosófico– innegable para las sociedades, las guerras «no pertenecen al campo de las artes y de las ciencias», y sin embargo, no son un saber sencillo, sino al contrario, «llevar una guerra» consiste en un saber de los más complejos y racionales que existen.

En las guerras se trata de «movimientos de la voluntad aplicado... a un objeto viviente y capaz de reaccionar», y por ello, subraya Günter Maschke, para Clausewitz, la guerra (también la próxima guerra contra Irak y Corea del Norte, &c., habría que añadir) es «incertidumbre, fricción y azar» que no permite una simplificación –ni por los militares, ni por los políticos e intelectuales– de los «complejos procesos» de la guerra, presentándola de tal forma «que incluso un niño podía tener el sentimiento de ser capaz de dirigir un ejército» («militärische Kinderfreunde»). Ni admite el desarme conceptual de la Filosofía ante ella, pues estaríamos renunciando a la comprensión verdadera de una de las cuestiones más cruciales del Presente histórico. ¡Ya es hora que la Filosofía no quede al margen de la Guerra, de la Idea de «guerra»!

2

El gran ensayista y pensador de lo político y la política, Günter Maschke, ha encontrado, al respecto y recientemente{1}, una solución plausible al laberinto interpretativo de lo que realmente nos quiso decir Carlos Clausewitz (1780-1831) sobre la Idea de la «Guerra» en su obra principal De la guerra, y en concreto en su relación con la «política».

Günter Maschke, después de un preciosa, y laboriosa, labor exegética de la correspondencia y demás obras, algunas inéditas, del famoso general prusiano, ha concluido, lo que muchos siempre hemos intuido, desde hace tiempo, a saber, que:

«La Guerra es la expresión o la manifestación de la Política».

Es ésta conclusión de Maschke una tesis que acerca el pensamiento de Clausewitz al «realismo político», y lo aleja, definitivamente, de los análisis bien intencionados y humanitaristas, de ciertos filósofos, intelectuales, especialistas universitarios y periodistas, que continuamente tratan de ocultarnos o silenciarnos la verdad de la geopolítica del inicio del siglo XXI en el Mundo (los que Antonio Gramsci denominó «expertos en legitimación»).

No podía ser de otra forma ya que la realidad política internacional, y nacional, es objetiva, y es la que es, independientemente de la propaganda orwelliana que realicen los «intelectuales», los «centros de educación» y los medios de comunicación.

3

La propaganda orwelliana de EEUU, y de sus «satélites» europeos –«satélites» porque no han conseguido tener una política exterior común, ni un ejército propio–, más o menos sutil, se presenta en dos frentes.

El primero es el frente de la opinión pública y consiste en conseguir que la misma adopte el consenso «políticamente correcto» de la élite intelectual.

En este caso el «consenso» significa que la guerra contra Irak es inevitable y necesaria por parte de EEUU y sus aliados (en cambio más razones tendría Irán), independientemente de saber si realmente el Irak de 2003 ha amenazado o agredido a EEUU o a Inglaterra o a Alemania o a España, o si sabemos con certeza las consecuencias sobre la población civil que tendrán los bombardeos y la invasión de los soldados de las fuerzas terrestres (bombardeos que se vienen haciendo, por lo demás, periódicamente desde 1991, y terminación «por tierra» de la guerra del golfo de 1991, sin hacer mención de la «medida política o militar» del «embargo de medicamentos, &c.»). Pueblo irakí y kurdo que, indudablemente, no se merece el régimen político de Sadam Husein (ni de Turquía), ni la ausencia de los derechos humanos elementales, inexistencia de derechos fundamentales que, lamentablemente, se suele olvidar por los que están en contra de la guerra contra Irak, salvo la honrosa excepción de Noam Chomsky, quién siempre ha defendido los derechos humanos auténticos contra cualquier organización estatal o no, sea EEUU o se trate de otro Estado.

El segundo frente de la propaganda orwelliana se presenta en el campo de las ideas del saber político. En el análisis político interesa que no se comprenda, no ya por la opinión pública, sino tampoco por parte de los dedicados a la «ciencia política», lo que significa la realidad de la guerra y la política, pues es propio de la ideología de un determinado régimen político que su «élite intelectual» posea unas herramientas conceptuales «apropiadas» para la consecución, no de la verdad, sino de los objetivos del régimen político –que suele coincidir con los objetivos de los más ricos y poderosos del régimen y sus monopolios económicos–.

Günter Maschke, en mi opinión, contribuye con su acertado análisis o comprensión verdadera del pensamiento de Clausewitz, a no convertirnos en víctimas conceptuales de este segundo frente de la propaganda orwelliana del «eje del bien» y/o del «eje del mal».

4

Los «intelectuales humanitaristas», que están afectados, del llamado por Noam, «problema de Orwell»{2}, suelen permanecer en la «ilusión necesaria» de que la política fracasa cuando se recurre a la guerra (de que la guerra es el «fin» de la política), porque han interpretado incorrectamente la famosa frase de Clausewitz:

«La guerra es un instrumento de la política/ Der Krieg ist ein Instrument der Politik»{3}

La «ilusión» de estos intelectuales de la «intelligentsia» viene de la confusión entre «instrumento» y «objetivo» de la «verdadera política». Si consideramos la guerra como un simple instrumento del «arte de la política», y la política tiene el instrumento pacífico de la diplomacia ¿no es, por tanto, un «fracaso» de la política, el recurrir al «instrumento de la guerra»?

Planteados así las premisas o los presupuestos, habría que concluir que sí; pero ocurre que las cosas no son así, es decir, que el pensamiento de Clausewitz (ni de los más importantes y coherentes «pensadores políticos», incluido Noam Chomsky) no tiene esos presupuestos que se les atribuye falsamente. Y ello debido a que la frase de Clausewitz (ni el pensamiento de los filósofos a los que me refiero) no puede sacarse del contexto de toda su obra, incluido la correspondencia, del general prusiano (y de los autores que miren «sin prejuicios» los hechos ).

Y el «objetivo» de la «política», como sabemos, es la eutaxia de su sociedad política; y para ello el objetivo no es solamente la «paz a cualquier precio», pues ello implicaría la renuncia a su «soberanía», a su «libertad» (si, en un país, todos aceptaran ser siervos o esclavos, o vivir en la miseria y sin luchar, no habría jamás violencia o «guerras»), &c., y en el límite la renuncia, de la misma sociedad política, a su «existencia» o permanencia en el tiempo de sus planes y programas –de su prólepsis política–.

Renuncia a la existencia de la misma sociedad política, puesto que, y esto se reconoce por Clausewitz y todos los autores, la «paz» como las «guerras», no son conceptos unívocos.

La «paz», y la «guerra», puede ser de muchas formas, desde la «Pax romana» a la «Paz establecida en Versalles». Además de la existencia, quizás más realista, de un «status mixtus que no es ni guerra ni paz», por ejemplo, ¿cómo calificar la situación actual entre Marruecos y España después de la «batalla» del islote Perejil? ¿O en el futuro, entre España e Inglaterra, por el asunto del peñón de Gibraltar? ¿O en el futuro, entre España y el «País Vasco» o «Catalonia» o «Galicia»? ¿De «diplomacia» o de «guerra»?

5

En realidad la guerra es la expresión o manifestación de la política, y ella –la guerra– es como «un verdadero camaleón, pues cambia de naturaleza en cada caso concreto», aparentemente creemos que se produce la «desaparición» de la política (o del Derecho Internacional) cuando «estalla la Guerra», y en verdad no es así, pues la política y la diplomacia continúa implementando sus planes y programas, ¿para qué?, para conseguir una mayor eutaxia de la sociedad política vencedora o no, en el «tiempo de paz» posterior (así consiguió EEUU su predominio en Oriente Medio después de la Guerra Mundial II).

Pues, recordemos que las guerras terminaban con los Tratados de Paz, por lo menos hasta la Guerra Mundial I. Hoy en día, parece más bien, que estemos en un permanente «estado de guerra» mundial, en el que es imposible un «Tratado de Paz» entre los contendientes. Así las cosas en el «mundo del saber político» ¿Cómo y cuando se firmará el Tratado de Paz entre EEUU y Ben Laden? ¿Y es posible tal cosa?

Bien dice G. Maschke que Clausewitz es autor de las siguientes frases que inclinan la balanza en favor del primado de lo político sobre lo militar en el tema de la «guerra»:

«la política ha engendrado la guerra», «la política es la inteligencia... y la guerra es tan sólo el instrumento, y no al revés», «la guerra es un instrumento de la política, es pues forzoso que se impregne de su carácter » político, la guerra «es solo una parte de la política... consecuentemente, carece absolutamente de autonomía», «únicamente se pone de manifiesto –la guerra– en la acción política de gobernantes y pueblos», «no puede, jamás, disociarse de la política», «pues las líneas generales de la guerra han estado siempre determinadas por los gabinetes... es decir, si queremos expresarlo técnicamente, por una autoridad exclusivamente política y no militar», o cuando dice «ninguno de los objetivos estratégicos necesarios para una guerra puede ser establecido sin un examen de las circunstancias políticas», &c.

Ahora bien, volvamos a la Guerra contra Irak, una manifestación más (en este caso de violencia extrema «policial») de la nueva «política «del «Imperio» constituido y constituyente de la también «nueva forma de la relación-capital» –el «Capitalismo como forma Imperio», según la reciente tesis del libro de Antonio Negri y M. Hardt– e intentemos «comprender» ahora, con las «armas conceptuales tradicionales» clausewitzianas, la política del bando «occidental». Entonces, EEUU, dirigido por Bush II, se nos presenta como un «nuevo Napoleón» que reuniera en su persona política la categoría de «príncipe o soberano» al ser, a los ojos del Mundo, al mismo tiempo «cabeza civil y militar» de la «civilización». Pero otorgándole que sea la cabeza militar en el planeta, ¿quién le otorga el que sea también la «cabeza civil»?{4} –Noam Chomsky es más realista al reconocer que desde el punto de las víctimas, es indiferente que el poder que los humilla y mata se llame «Imperio» o «Imperialismo». En cambio, el poder militar y civil de Sadam Husein se nos da en toda su crueldad dictatorial, apoyada –por cierto– hasta hace once años por los mismos EEUU y Occidente, que miraban, entonces, para otro lado, cuando se cometían innumerables atentados a los derechos humanos contra su propia población irakí y kurda.

6

En verdad la guerra es la expresión de la política, y en ese orden, es decir, que la política no es la manifestación de la guerra, lo cual viene a dar la razón, no solamente al realismos político de Carl Schmitt y Julien Freund, sino también a Gustavo Bueno, pues la existencia de las sociedades políticas auténticas, de los Estados o Imperios, requiere una capa cortical que se da, entre otras causas, por la acción política partidista y eutáxica.

Se consigue así que dichos intelectuales no incidan, como deseamos todos, en su lucha y defensa por una nueva política que se exprese predominantemente en diplomacia, y no en guerras de exterminio, predominantemente «exterminio de civiles».

Estos «intelectuales» y periodistas se concentran, en cambio, en la denuncia «humanitaria»{5} de los males de la guerra (males de la guerra que por más que se han denunciado en la Historia no han dejado de producirse salvo que se ha influido de manera práctica en la política), olvidándose de luchar conceptualmente, filosóficamente, por conseguir una vuelta a la verdadera política que no se exprese en guerras nucleares generalizadas o no.

Y, en cambio, la verdadera política incluye, como nos demuestra el análisis de G. Maschke, dos partes, en su expresión, la «diplomacia» y la «guerra». Y la política de una sociedad determinada no deja de ser «verdadera política» –utilizando conceptos de la «realista» filosofía política de Gustavo Bueno– cuando se manifiesta en diplomacia o en la guerra.

No se reduce la política a la paz, y a los medios pacíficos.

Otra de las causas del error habitual, hasta ahora, en la interpretación de Clausewitz, es no percatarse del origen histórico de determinadas Ideas del saber político, y viene recogida y resaltada por G. Maschke, a saber, la trascendental importancia del cambio histórico en la concepción de la guerra, con la Revolución Francesa de 1789 y Napoleón (príncipe o soberano, y no sencillamente «dictador»), ya que se pasó del «viejo arte de la guerra» de gabinete de los Estados Absolutistas, a «los grandes alineamientos engendrados por la guerras», por la Revolución.

Gustavo Bueno ha recogido también esta modificación crucial, sin hipostatizarla, con su análisis del surgimiento de la Idea de la «Nación política» o nación canónica:

«Algunos historiadores creen poder precisar más: la primera vez en que se habría utilizado la palabra nación, como una auténtica «Idea-fuerza», en sentido político, habría tenido lugar el 20 de septiembre de 1792, cuando los soldados de Kellerman, en lugar de gritar «¡Viva el Rey!», gritaron en Valmy: «¡Viva la Nación!» Y, por cierto, la nación en esta plena significación política, surge vinculada a la idea de «Patria»: los soldados de Valmy eran patriotas, frente a los aristócratas que habían huido de Francia y trataban de movilizar a potencias extranjeras contra la Revolución.» Gustavo Bueno, España frente a Europa, Alba Editorial, Barcelona 1999, página 109.

Por ello, el realismo político, y toda la filosofía política «realista» –en cuanto sabe separar la ideología y la verdad geopolítica– que incluye, en este sentido y a mi entender, a Gustavo Bueno y a Noam Chomsky, tienen que reconocer, lo que ya dijera Clausewitz:

«Que la «guerra no es otra cosa que la prosecución de la política por otros medios»

O como dice el mismo Günter Maschke: «La tesis fundamental de Clausewitz no es que la guerra constituye un instrumento de la política, opinión de los filántropos que cultivan la ciencia militar, sino que la guerra, sea instrumento o haya dejado de serlo, es la «prosecución de la política por otros medios.» Pero Clausewitz encontró una formulación aún mejor, sin percatarse de la diferencia con la precedente. Él escribe que las guerras no son otra cosa que «expresiones de la política» (tal cita proviene del estudio, todavía inédito, «Deutsche Streitkräfte», cfr. Hahlweg en la edición citada de Vom Kriege, pág. 1235), y en otro lugar, que la guerra «no es sino una expresión de la política con otros medios».» Empresas políticas, número 1, Murcia 2002, pág. 47.

7

En conclusión, es mucho más «humano» ser «realista» en el saber político, cuando se trata de Idea tan omnipresente como la «guerra», pues se evitan más «desastres humanitarios», y se consigue más auténtica libertad y justicia, cuando superamos el «problema de Orwell» y podemos contemplar la política tal como es, es decir, como la que tiene el poder real de declarar la guerra y la paz, que van configurando, a su vez, los «cuerpos de las sociedades políticas» en sus respectivas «capas corticales». Por ello la solución de G. Maschke a las ambigüedades de la obra de Clausewitz viene a contribuir al intento serio de cambiar la política para evitar las guerras. Se trata de una lucha por la verdad, en la paz y en la «guerra».

Notas

{1} «La guerra, ¿instrumento o expresión de la política? Acotaciones a Clausewitz», traducción de J. Molina, en la revista Empresas políticas (Murcia), año I, número 1 (segundo semestre de 2002).

{2} El «problema de Orwell» es el tema central de la labor de Noam como filósofo político, y consiste en la cuestión de «cómo es posible que a estas alturas sepamos tan poco sobre la realidad social» y política de los hombres(y olvidemos tan pronto las matanzas, miserias, etc. causados por el poder estatal imperialista), disponiendo, como se dispone, de todos los datos e informaciones sobre la misma. A Orwell no se le ocultó que una «nueva clase» conseguía en gran medida que los hechos «inconvenientes» para el poder político y económico, llegasen a la opinión pública «debidamente interpretados», y para ello si era preciso cambiar el Pasado, se hacía, pues se controlaba los hechos y los conceptos del Presente. La propaganda en las sociedades «libres» se consigue sutilmente, por ejemplo por el procedimiento de fomentar el debate pero dejando unos presupuestos o premisas de los mismos sin expresarse (y sin poder ser criticadas), o discutiendo por la intelligentsia, entre sí, cuestiones periféricas, dando la impresión de verdadera oposición.

{3} Clausewitz, Vom Kriege, págs. 990-998, 19 ed., Bonn 1980.

{4} La ONU, como institución internacional con «personalidad jurídica propia», ha sido «puenteada» continuamente por EEUU, cuando le ha interesado, y sus Resoluciones incumplidas sistemáticamente, siempre y cuando no sean como la 1441, que da a entender, o no –dicen otros– que se puede utilizar la «fuerza» contra el dictador irakí.

{5} ¡Como si no fuera «humano» el análisis científico y filosófico del concepto de las guerras y sus relaciones con la política, precisamente para conseguir mejores y mayor cantidad de Tratados de Paz!

L’idéal de l’Empire de Prométhée à Épiméthée

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L’idéal de l’Empire de Prométhée à Épiméthée

par Massimo CACCIARI

Nous reproduisons ci-dessous un texte intéressant du philosophe et homme politique italien, Massimo Cacciari, cueilli sur le site du quotidien Libération. Massimo Cacciari est l’auteur de nombreux essais et une partie de son œuvre est traduite en français. Les éditions de l’Éclat ont ainsi publié en 2011 un texte intitulé « Le Jésus de Nietzsche ».

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Incontestablement, la période qui va de l’écroulement du « socialisme réel » à la nouvelle « grande crise » que nous traversons actuellement peut être définie véritablement comme une époque. Le terme Épochè indique, en effet, l’arrêt, l’interruption, mais non pas comme s’il s’agissait d’un espace vide, d’un intervalle. Il signifie, au contraire, un resserrement dans le cours du temps, une abréviation extraordinaire, dans laquelle ses caractères essentiels s’expriment comme contractés les uns sur les autres et les uns contre les autres. L’époque, de ce point de vue, n’est donc nullement un « temps long », mais le concentré de ses significations dans un spasme, qui les révèle et peut aussi, en même temps, les dissoudre. De ce même point de vue, on peut définir comme « époque » la grande guerre civile qui a anéanti la centralité politique de l’Europe entre 1914 et 1944 : trente ans seulement, à peine plus que « notre » 1989 – 2011. Dans l’époque, se précipitent évidemment des idées, des facteurs, des contradictions mûries dans le « temps long » – et c’est pourquoi il est impossible de la comprendre de manière isolée. Mais elle assume toutefois une valeur révélatrice et déploie les mêmes éléments qui étaient déjà à l’œuvre selon des dimensions et des énergies nouvelles. Alors que, précisément, toute « normalité » est arrêtée, ce qui semblait à première vue normal et facilement prévisible dans ses développements s’exprime désormais selon des formes inattendues et inquiétantes. Dans un certain sens, l’époque assume toujours une valeur « apocalyptique ». Conséquence évidente de cet état de choses : l’affirmation d’une extraordinaire porosité des mots. Leur puissance « apophantique » décroît redoutablement. Le rapport entre les mots et les choses qu’ils devraient désigner se fait dans la plus grande insécurité. Que signifient aujourd’hui les mots démocratie ? marché ? paix ? Ou encore : nous avons fait l’unité européenne – mais que signifie l’Europe ? l’Occident ? Ainsi, le terme époque résume aussi en soi sa profonde signification sceptique : toute époque authentique se révèle également en tant que doute radical sur son propre passé et ne s’ouvre au futur que de manière hasardeuse.

À la veille d’une telle « époque », les signes qui permettent de la lire restent cachés. Les temps semblent même favoriser des prévisions contraires. La veille d’une époque se caractérise par un certain bavardage sur notre capacité à « contrôler » l’avenir, tandis que l’époque qui suit semble « faite » pour démontrer la loi éternelle de l’hétérogenèse des fins. Ce fut le cas de l’anno mirabile 1989. La troisième guerre mondiale était terminée. Un seul Titan restait en scène, à la puissance inapprochable. Mais c’était un Titan qui, malgré son nom, se voulait non-violent. C’était un Prométhée bienfaiteur des misérables mortels, qui aurait travaillé et se serait volontiers sacrifié pour harmoniser et unifier leurs désaccords et leur assurer justice et bien-être. Comme Prométhée, il avait en réserve, pour nous, le don le plus précieux : la raison, le nombre, la capacité de calculer et de transformer. L’affirmation de son modèle de rationalité aurait été le fondement de la sécurité et de la paix.

Aube ou crépuscule ? L’époque rapproche les couleurs jusqu’à les confondre. Mais tous ou presque obéirent à cette Annonce, comme à l’aube d’un Nouveau Commencement. Le tragique vingtième siècle de la « tyrannie des valeurs » déclinait enfin et surgissait l’âge de la concorde entre science, technique, marché, démocratie et « droits de l’homme ». Qu’il y ait pu y avoir une symbiose inavouable entre les deux Titans (à partir d’une origine commune !) – qu’ils n’aient pu régner qu’ensemble – et que, donc, la fin de l’un ait pu représenter une menace mortelle pour l’autre – tout cela ne fut même pas suspecté. Tout au plus les traditionnels adversaires du vainqueur s’exercèrent à en dénigrer la puissance solitaire – justifiés en cela par l’indécente jubilation de ses vassaux.

L’époque qui s’est ouverte alors a fait justice de cette antiquaille, nous rappelant le célèbre dit romain : vae victoribus ! « Malheur aux vainqueurs ! » On ne remporte pas la victoire dans la guerre tant qu’on n’a pas remporté la victoire dans la paix. Prométhée pouvait-il vaincre ? Ce Titan pouvait-il mener à terme l’ordinatio ad unum, cette « aspiration à l’unité » de cette planète toujours plus étriquée et plus pauvre, pour laquelle il se sentait depuis longtemps appelé ? Certes, il représentait le courant spirituel et politique le plus fort d’Occident, la seule puissance hégémonique qui avait survécu au suicide d’Europe, profondément enracinée dans une grande culture populaire, forte de valeurs partagées. Mais là aussi résidait sa faiblesse. Sa propre puissance créait l’illusion que le monde pouvait être guidé depuis les sommets du Capitole. Il l’avait déjà été péniblement au cours des décennies précédentes à travers le foedus, l’« alliance », toujours incertaine, mais aussi toujours opérante, entre Empire d’Occident et Empire d’Orient. L’écroulement de ce dernier ébranlait de manière automatique des régions tout entières, stratégiques d’un point de vue géopolitique et sur lesquelles le vainqueur n’avait quasiment aucune prise : il « libérait » des énergies auparavant contrôlées de quelque manière et contraintes à jouer toujours, en tout cas à l’intérieur de la « guerre mondiale »; il brisait le conflit, en le rendant illisible pour celui qui avait été formé à calculer selon les paramètres « universalistes » de cette guerre.

L’époque a mis à l’ordre du jour, impérieusement, l’idée d’Empire – et tout aussi impérieusement elle l’a démantelée. Voici un exemple éclatant de cette morsure du temps qu’une époque représente. L’occasion impériale s’avérait presque comme nécessaire à la proclamation de la victoire. Les vassaux européens suivaient, en applaudissant, son char. Mais les adversaires en faisaient tout autant. Aucune apologie de l’Empire ne fut plus convaincante, concernant le destin qu’il aurait dû représenter, que les critiques de ses détracteurs. Mais Prométhée n’est pas intrinsèquement capable d’Empire. Il ne sait pas le concevoir ex nationibus; il n’a aucune idée du pluralisme (idéologique, religieux, culturel) qui est immanent à son concept; par conséquent, il ne parvient pas à donner naissance à des formes de gouvernements authentiquement « impériales ». La guerre – que, tout au long des années 60 et 70, le vainqueur s’était déjà montré incapable de conduire efficacement en dehors des schémas de la rationalité militaire, fondés sur le concept de justus hostis – n’était que la poursuite de la faillite de la politique par d’autres moyens. L’Empire dure jusqu’au 11 septembre. Puis l’époque en consume l’écroulement.

Le 11 septembre crée l’illusion d’une relance en grandes pompes de l’idée impériale; en réalité, elle en marque la fin. Les désastreuses guerres de Bush junior en poursuivent le fantôme, tandis qu’elles essaient de masquer les causes aussi matérielles qui en décrètent la faillite.

Il s’est avéré, toujours lors de ce temps bref, dans le dialogue tout aussi bref de l’époque, que le nouvel Empire avait construit une grande partie de son hégémonie en étendant sa dette; il s’est avéré que son peuple, même en se fondant sur la foi en sa propre mission, s’est caractérisé par une épargne négative. Il s’est avéré que les politiques de l’aspirant Empire ont donné libre cours à la plus glorieuse période de dérégulation que l’histoire du capitalisme ait peut-être jamais connue et à l’écroulement de toute forme de contrôle sur les activités économiques et financières. Il s’est avéré que tout cela portait le vainqueur à dépendre tout d’abord du Japon, puis de la Chine pour le financement de sa propre dette. Il s’est avéré encore que ce financement impliquait la « reddition » à la Chine sur des questions fondamentales, comme son entrée dans l’O.M.C. en tant qu’économie de marché (sic !) et le maintien de sa monnaie à des niveaux incroyablement bas. Il s’avère maintenant que l’Empire est dans une situation de « souveraineté limitée », comme n’importe quel État de la vieille Europe.

Naturellement les ressources de Prométhée sont immenses. Mais il est évident que ses velléités d’unification ont échoué. Et elles ne pouvaient qu’échouer. La présidence d’Obama enregistre et administre cet échec. Ce sera un blasphème – et ça l’est certainement – mais on ne peut s’empêcher de le penser. Qui n’a pas salué comme un nouveau lever du jour la perestroïka de Gorbatchev ? Quelqu’un s’en souvient-il ? Mais Gorbatchev était, tragiquement, uniquement, rex destruens, « roi démolisseur ». Lourd destin – mais il revient toujours à quelqu’un dans l’Histoire de devoir défaire, de n’avoir rien d’autre à faire que défaire, sans même espérer pouvoir repartir de là. Il n’y a pas de feu sans cendres. Obama : nouvelle ère, nouveau siècle, et même : nouveau millénaire. Nouveau visage à tout point de vue – comme Gorbatchev, qui ne ressemblait certes pas aux vieux staliniens, ni au typique représentant du K.G.B., comme Poutine. Obama : voici la possibilité de relancer l’idée impériale selon le fil d’Ariane des « droits de l’homme » de l’Évangile démocratique, de l’œcuménisme dialogique. Avec l’icône éternelle de J.F.K. dans le dos. Mais il semble qu’il ne lui reste qu’à « démonter » les guerres des autres, qu’à traiter avec les « maudites » agences de notation, qui, après avoir réduit en poussière tout contrôle effectif dans les années de la grande bulle, désignent maintenant, comme des censeurs sévères, les victimes imminentes à la spéculation internationale; qu’à essayer de donner une forme plausible à l’embrouillamini inextricable qui s’est formé entre économie américaine et République populaire chinoise.

Il n’y a aucun Empire à la fin de l’époque, et moins encore quelque organisation multipolaire fondée sur d’authentiques alliances. Celui qui, il y a vingt ans, semblait pouvoir aspirer à servir de « cocher » global, arrive à peine aujourd’hui à se tenir debout. Celui qui remplit aujourd’hui une fonction économique et financière clé n’est nullement en mesure d’assumer une fonction politiquement hégémonique. Le premier pourra-t-il renaître ? Le second pourra-t-il se transformer en puissance politique globale ? Les anciennes et nouvelles puissances pourront-elles donner vie à une organisation commune, à partir des « fondamentaux » financiers, économiques et commerciaux ? L’époque suspend son jugement. Les Prométhée qui croient tout prévoir ne sont que ceux qui la projettent et la préparent. Finalement, on « calcule » comment ce qui est arrivé correspond à ce qui était attendu en moindre proportion – et l’on n’ose pas faire de prévision. L’époque commence avec Prométhée, le «  prévoyant », et s’achève avec Épiméthée, « celui qui réfléchit après coup ». De la modestie de son doute et du réalisme désenchanté de ses analyses, nous pourrons peut-être tirer quelque bénéfice.

Massimo Cacciari

• Traduit de l’italien par Michel Valensi

• D’abord mis en ligne sur le site de Libération, le 30 juin 2012, puis repris par Métapo Infos, le 6 août 2012.


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lundi, 12 novembre 2012

La France intellectuelle de Jules Monnerot

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La France intellectuelle de Jules Monnerot

Ex: http://www.juanasensio.com/


«L’illusion intellectuelle par excellence est l’illusion de l’intellectuel sur lui-même.»
Jules Monnerot, Inquisitions (José Corti, 1974), p. 54.


Comment serait-il aimé, voire, tout simplement, lu et commenté, ce penseur durablement ostracisé par une élite médiatico-politique qu'il n'est plus vraiment besoin de présenter, puisque non seulement Jules Monnerot a magnifiquement analysé la faillite de son surgeon le plus réussi, l'intellectuel, mais a en outre averti qu'il n'écrivait que s'il avait quelque chose à dire (1), au rebours donc des pratiques lamentables de cette même élite dont l'essence labile réside dans le fait de parler, écrire ou, simplement, se montrer, pour ne rien dire, écrire ou même, montrer ?
Comment Jules Monnerot ne serait-il pas réduit à quelques signes extérieurs qui, dans ce qui reste encore l'un des pays les plus idéologisés de notre planète, la France, ont valeur, depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale, de jugement et de condamnation intellectuelle, morale et même physique, sous une forme certes plus adoucie qu'à l'époque de l'Épuration, où n'étaient point rares les exécutions ?
Rions, a contrario, de la fausse intelligence et de la fausse bravoure d'un Richard Millet (paraît-il phalangiste lors de la Guerre du Liban, ce qu'aucune preuve historique ne vient conforter) ayant pignon sur rue, voix sur les plateaux de télévision et qui, lui, vend en quantité ses essais, à vrai dire de plus en plus affligeants, et affligeants, avant tout, pour celui qui se prétend le dernier écrivain de France, d'un point de vue littéraire.
Nous avons, en fin de compte, les proscrits et les penseurs que nous méritons, tous deux d'opérette, alors qu'un écrivain de talent comme Robert Brasillach, lui, a été expédié ad infernos, en toute bonne conscience n'en doutons point, par un jury de petits juges gris pâle.
Dès lors, nous ne pouvons que comprendre le mouvement d'humeur de Jules Monnerot qui, en préambule de son analyse remarquable du phénomène de décomposition de la vie intellectuelle française, s'étonne que son nom ne se trouve, «sauf erreur, en 1969, dans aucun dictionnaire français des auteurs ou des œuvres écrites» (Avertissement au lecteur, p. 7, en italiques).
Il n'est pas davantage acquis que son nom figure dans des dictionnaires plus récents, tant paraît scandaleuse à nos penseurs la position d'un auteur comme Monnerot : il pense, et il pense justement, méchamment, et sa pensée est une critique absolue de la non-pensée de nos penseurs.
Je me contenterai ici, n'étant point ce qu'il est convenu d'appeler un analyste politique ni même un historien des idées, d'éclairer durement quelques arêtes du texte de Monnerot, sur lesquelles je souhaite que les imbéciles à la vue courte et au cerveau atrophié se coupent mauvaisement, quitte à ce que la gangrène infecte une plaie à vif et que, à défaut de leur couper la tête, d'humanistes chirurgiens les privent de leur faculté de se déplacer.
Commençons par remarquer la façon, aussi méchante que drôle, dont Monnerot caractérise la nouvelle cléricature de l'intellectuel, laquelle n'a pu voir le jour, de même que le suffrage universel, qu'au moment où le christianisme, en tant que corps politico-théologique régissant la vie politique, sociale, morale et intellectuelle française, a été contraint de relâcher son emprise formidable.
L'homme ayant on le sait horreur du vide, il a bien fallu inventer un substitut à l'Église si, selon Monnerot, la «déchristianisation illustrait dans le fait l'axiome que Saint-Simon et Auguste Comte avaient répété toute leur vie : «Un système... ne peut être remplacé par la critique qui en fait apparaître les inconvénients.» Il s'agit en effet de deux fonctions psychologiques différentes. Le catholicisme avait été élaboré par plus de dix-neuf siècles de pensée et de charité. Il laissait derrière lui un immense manque à gagner affectif. La thématique socialiste, elle-même affectivisation du marxisme (2), lui-même philosophie à dominante affective (messianique) en dépit d'une indigence certaine, devait tomber dans un avenir qui n'était pas éloigné, comme une sorte de pluie bienfaisante sur ces landes affectives désertiques où ne poussaient, de place en place, que les affligeants cactus du progrès pour demain» (p. 12).
On constate qu'un polémiste, mais pouvions-nous l'ignorer en lisant un Bernanos, un Bloy ou un Boutang, est d'abord un écrivain de panache et surtout de talent. On constate aussi qu'un Philippe Muray n'a fait que développer, sans doute sans même le savoir, ces lignes tranchantes en quelques milliers de pages, bien souvent répétitives et, n'en déplaise à Maxence Caron, trop souvent faciles.
Jules Monnerot affirme qu'il faut dater «de l'avènement du suffrage universel l'époque où les idées politiques sont pratiquement frappées d'impuissance en politique» (p. 13) puisqu'il s'agit désormais «d'extraire des idées-forces (de la pensée conservatrice comme de l'autre), des thèmes intellectuellement assez sommaires et affectivement assez motivants, pour déterminer des individus incultes (comparés aux électeurs des précédents régimes), polarisés par des appétits ou des aversions élémentaires» (ibid.), les clercs, qui depuis les années 30, depuis qu'ils se sont défroqués, comme Julien Benda l'a si bien montré, sont devenus les véritables maîtres de l'intelligence, exerçant leur nouveau pouvoir sur les masses moutonnantes de ce qui ne portait pas encore le nom d'opinion publique.
Jules Monnerot choisit, pour illustrer cette idée d'un travestissement du pouvoir intellectuel (3) la figure de Renan, honnie par tant d'écrivains qui ne lui ont jamais pardonné sa palinodie intellectuelle, morale et spirituelle : «Il changera d'habit, mais non de ton, méritant de manière équivoque la révérence d'un auditoire déchristianisé en surface, qu'il devait rassurer sourdement par des gestes de prêtre» (p. 15).
Ainsi, les «desservants du nouveau culte ne portent plus d'ornements sacerdotaux. La soutane s'allège en redingote, avant de se raccourcir en veston» (pp. 15-6).
Cette idée du travestissement de la modernité, si chère aux yeux d'écrivains tels que Léon Bloy et Georges Bernanos, est constante, dans le livre de Monnerot, par exemple lorsqu'il aborde, dans des pages assez belles, la question de l'intellectuel en littérature, cette dernière étant définie, voici qui plairait à Roberto Calasso, comme «le surnaturel lorsqu'on n'y croit plus» (4), le fait «d'y avoir cru laiss[ant] un ancien frisson; et cet art [n'étant] que la possibilité de l'évoquer» (p. 19), puisque la «fonction spécifique de l'artiste du langage, de l'homme qui agit par le mot», est de «jouer des mots avec une telle habileté qu'il leur reste (aux mots) quelque chose des pouvoirs acquis au cours de leur usage premier, quelque chose du temps où les mots renvoyaient à la mort, à la vie, à l'ordre et au désordre» (ibid.).
Le faux écrivain, disons Jean-Paul Sartre sur le roman le plus connu duquel Monnerot écrit des pages terribles (cf. pp. 95-113) (5), évoque lui, au contraire, moins un usage second des mots (qui selon Monnerot est l'essence même de la littérature, à savoir «des mouvements de la sensibilité en l'absence de la chose», p. 19), qu'un usage frauduleux de ces mots au moyen de ce que j'ai appelé un langage vicié, de plus en plus facilité par les techniques de masse (6) dont un Serge Tchakhotine, avec Le Viol des foules par la propagande politique ou un Armand Robin avec le magistral La Fausse parole, ont donné des aperçus saisissants.
Pourtant, il serait faux de penser que Jules Monerrot place l'intellectuel moderne sous la seule lumière, ô combien crue, de l'imposture. Son analyse est plus subtile puisqu'il admet que l'intellectuel, «en même temps qu'il abuse, s'abuse. C'est un «auto-abusé». Il n'a point la stature du grand trompeur. Ce n'est pas Lucifer. Ce n'est même pas Protagoras qui voulait bien parler pour tromper les autres mais dont il était exclu que, ce faisant, il se trompât lui-même» (p. 36), peut-être parce que, comme l'écrit Monnerot en utilisant une comparaison savoureuse, l'intellectuel n'a pas la stature d'un Socrate, dont «la voix porte si loin parce qu'il y a eu la cigüe. Le whisky n'a pas les mêmes vertus» (p. 35), peut-être parce que seule l'exemplarité d'une vie, son témoignage direct, ne peuvent être contrefaits, si celui «qui est exposé, qui s'expose, est toujours autre chose qu'un professeur de morale» (p. 131), peut-être parce que l'intellectuel «s'affirme un simple justificateur» car, «professeur dans la vie, il est contre-professeur sur l'estrade», le «public populaire» étant de fait la «dupe des formes et marques extérieures de la compétence (une certaine phraséologie, l'autorité de la voix, l'assurance du maintien, tous les trucs enfin que confère une longue pratique)» et cette duperie étant escomptée «par les ordonnateurs et les metteurs en scène de la représentation théâtrale» (ibid.), ces «moutons privés [étant] des lions publics», les «surenchères verbales compens[ant] les timidités de la conduite» (p. 55).
«L'histoire des intellectuels, qui selon Monnerot se ramène, certes, à une série de faillites sur les deux plans qui leurs sont propres : celui de la justesse de la pensée par rapport à elle-même et celui de la justesse de la pensée par rapport au réel» (p. 62), est développée à l'aide d'exemples précis tout au long du deuxième chapitre du livre.
Selon l'auteur, quelque chose change à partir de la Seconde Guerre mondiale : «À cette époque la figure de l'Intellectuel se fige. Les traits s'en exagèreront après la deuxième guerre (sic) mondiale, ils ne changeront pas. Nous avons déjà l'éminent fonctionnaire qui est moralement de toutes les grèves et de toutes les révoltes, postalement de toutes les insurrections. Célébrateur rituel des défaites nationales, il hurle à la mort en toute sécurité. Quelles que soient l'outrance des exhibitions sur tréteaux, l'intensité des violences pétitionnaires, pour ce «rebelle à prix fixe», tout se passera comme si, outre ses émoluments, la société qu'il vilipende par principe, lui avait reconnu, comme à l'officier la propriété de son grade, le monopole de l'épithète morale, de la phrase révolutionnaire, de l'anathème inconséquent» (p. 85).
Ce sont bien évidemment les idéologies inhumaines du communisme (7) et de l'hitlérisme, leur lutte à mort et la défaite historique de la seconde, qui vont cristalliser, jusqu'à nos jours c'est une évidence, cette posture grotesque de l'intellectuel.
Il nous faut cependant revenir aux années trente : «La chronologie (l'existence joue de ces tours à l'essence) nous indique que l'effervescence antifasciste atteint son acmé au temps même de la Iejovtchina, la grande purge de Staline, et des plus célèbres procès de Moscou : après Zinoviev, Kamenev, Radek et Boukharine, pour ne parler que d'eux. Des cent trente-quatre membres du Comité central du P.C. de l'U.R.S.S., et des suppléants qui siégeaient au XVIIe congrès (1934), cent dix furent fusillés ou disparurent... Que ces victimes trouvent des pleureuses, ou qu'elles s'en passent ! L'intellectuel a toutes ses larmes retenues !» (p. 84).
Il les verse pourtant, ses larmes, notre intellectuel, mais sur les seules victimes, certes courageuses, qui ont lutté, au nom du communisme, contre la folie nazie. Les propos de Jules Monnerot sembleront dès lors, pour le lecteur contemporain, une dangereuse révision de l'histoire officielle de France, qui on le sait est parfaitement fausse, à tout le moins scandaleusement exagérée : le communisme nous a libéré du fascisme. Ainsi, les «condamnations à mort ou à la prison portées contre des écrivains réputés pro-hitlériens, alors que les intellectuels communistes florissaient (sic) à Paris, sont des crimes judiciaires, et doublement, puisque la société semblait soudain reconnaître à l'écrivain, pour le tuer, des responsabilités qu'elle lui refusait lorsqu'il n'était question que de le faire vivre. Mais ceux des intellectuels chez qui les sympathies pour le communisme et la haine du fascisme étaient récentes, se déchargeaient sur ces boucs émissaires d'un poids de culpabilité dont, par ce sacrifice humain, ils étaient délivrés» (p. 91).
Et Jules Monnerot, dans une page remarquable, d'évoquer le mécanisme qui, depuis que le communisme est devenu, dans l'esprit des Français, une idéologie fondamentalement moins délétère que le nazisme (alors que le bilan humain du communisme se chiffre, selon les estimations les plus prudentes, en dizaines de millions de morts), rejette en enfer tout personne qui oserait contester la bonté de ce fanatisme messianique laïcisé : «L'identité de nomination a pour fin d'étendre le même sentiment hostile à deux êtres artificiellement et abusivement identifiés. En ce sens la magie – c'est bien d'opérations magiques qu'il s'agit – a des effets réels. Car si ce transfert de haine réussit (faire passer par exemple sur la dernière en date des droites les sentiments de haine déjà investis sur les «droites» précédentes [...]), ce n'est qu'une question de moyens (les «mass media» ici sont déterminants), si ce transfert réussit, il a des effets réels, il motive des actes. Si l'on a réussi à lier par conditionnement de réflexes une épithète à des conduites hostiles, l'épithète, disons, de «fasciste», et ensuite à l'accoler à tel individu, il suffira par exemple de circonstances favorables pour que l'individu soit lynché par une foule à motivations «antifascistes». La chose n'est pas sans précédents. L'usure inévitable de l'épithète «fasciste», en dépit des malédictions rituelles de ceux qui s'appellent eux-mêmes des «mandarins», a amené nos publicistes sous contrôle «intellectuel» à y substituer progressivement l'épithète «d'extrême-droite». Mais cette dernière épithète ne tient que par le mot d'ordre. Trop abstraite, elle n'est pas assez «magique». On peut crier «fasciste assassin !» pour faire lyncher un homme; avec «d'extrême-droite assassin» on n'y parviendrait pas. Et c'est ainsi que d'insuffisance en incapacité, le mauvais logicien finit par n'être plus même un bon «publicitaire». Sur la voie déclive de l'inintelligence intellectuelle, on cherche en vain une ligne d'arrêt» (p. 123).
Des lignes qui n'ont pas vraiment perdu leur terrifiante actualité et qui me font dire que Jules Monnerot, hélas, s'est trompé sur un seul point, le plus important en fin de compte de sa démonstration : «Certes, l'Intellectuel n'a pas fini de nuire. Il peut nous montrer encore combien forte est la malfaisance des faibles. Mais nous le savions déjà. L'oraison funèbre par anticipation est aussi contraire aux lois du genre qu'aux convenances elles-mêmes. Mais peut-être, en ce qui les concerne, n'en est-il pas d'autre. Tout porte à croire qu'on ne célébrera pas le centenaire des Intellectuels en 1998» (p. 136).

Notes
(1) «Le lecteur parvenu jusqu'à la fin m'a déjà excusé si, contrairement à une idée aujourd'hui reçue, mais qui pudiquement demeure informulée, je n'écris que si j'ai quelque chose à dire, et pour le dire», Jules Monnerot, La France intellectuelle (Éditions Raymond Bourgine, 1970, p. 135). Sans autre mention, toutes les italiques sont de Jules Monnerot lui-même.
(2) Il n'est sans doute pas inutile de rappeler que Jules Monnerot est l'auteur d'une Sociologie du communisme parue en 1949 et traduite en plusieurs langues, qui constitue un réquisitoire aussi implacable que documenté sur l'idéologie la plus meurtrière qu'ait connue, jusqu'à ce jour, l'humanité. Sans doute tenons-nous là l'explication majeure de l'occultation volontaire dans laquelle les mandarins français ont tenu (et continuent de tenir) les analyses de Jules Monnerot, et cela en dépit même du fait qu'un Julien Gracq a répété son admiration pour un livre tel que La poésie moderne et le sacré. Évoquons ce jugement sans appel de l'auteur sur ses contemporains si prudemment taiseux : «Une généralisation de la lâcheté sociologique telle que les paralogismes marxistes et communistes ne rencontrent pas du tout de résistance spécifique, reste encore improbable, en dépit des immenses efforts et moyens consacrés à ce résultat grandiose», Inquisitions, op. cit., p. 84.
(3) «Il faut chercher l'origine historique de l'emploi du mot clerc comme épithète que l'intellectuel s'applique à lui-même dans les années 1930 dans l'influence qu'eut encore Ernest Renan sur les hommes d'une génération, celle de Péguy. Renan effectivement avait été clerc : séminariste. Mais ne dépouillant point les manières du clerc qu'en définitive il avait voulu être, Renan, qui mène jusqu'à son terme une carrière universitaire et académique hors de pair, est l'incarnation historique par excellence du cléricalisme qui supprime Dieu et garde le prêtre, en sorte que le nouveau «clerc» hérite du prestige de l'homme consacré sans se refuser aucune des commodités de l'homme qui ne l'est pas. Ses manières rappellent au respect un peuple qui garde en lui l'archétype social de la hiérarchie catholique. L'intellectuel va naître» (p. 15).
(4) C'est la thèse de La poésie et le sacré (Gallimard, 1949), pp. 159-60 : «Quand, au lieu du sacré, il n’y a de plus en plus que l’officiel – risible, indifférent ou profitable mais jamais exaltant – les dispositions affectives et les situations vécues d’où il tire sa substance sont rejetées de l’autre côté. Les hommes en qui le sacré demande à être, tournent le dos à tout ce que conservent, que représentent et que signifient des religions qui ne sont plus que ritualisme, des ritualismes qui ne sont plus que le rempart de ce que le profane compte de plus vulgaire, refusent d’y participer. Ou «nous ne sommes pas au monde» ou «nous y sommes pour qu’il ne soit plus». Si, comme le voulait Sorel, les «renouveaux» sont des retours aux sources, si les grands fondateurs d’ordres catholiques – comme en un autre sens les réformateurs hérétiques – ont remagnétisé leur religion par le contact de vertus et de particularités originelles que leur vocation était de retrouver et de réinventer, de ce que les derniers avatars du romantisme font curieusement écho aux premières (?) manifestations de la religion, on pourrait peut-être inférer, non seulement que le surréalisme est symptôme d’un état de besoin, mais encore qu’il prend place dans une constellation qui pourrait peut-être apparaître un jour préreligieuse, c’est-à-dire religieuse. À travers les alternances de décomposition et de recomposition du sacré, ses sources surréelles, qu’elles bouillonnent ou qu’elles filtrent, ne tarissent pas»,
(5) C'est l'intégralité de cette analyse qu'il faudrait citer : «Sartre excelle donc dans cette forme spécialisée de la rhétorique qu'on nomme philosophie universitaire, et qui semble faite tout exprès pour qu'y brillent les talents littéraires les plus introvertis et abstraits. Il lui arrive constamment d'oublier de définir les notions, de préciser la portée et les limites des conventions, de passer sous silence les postulats implicites grâce auxquels il lui donne à lui-même, et aux lecteurs qu'il abuse par des procédés littéraires, l'illusion de démontrer ce qu'il affirme», p. 112.
(6) «On prévoit le temps où le pur consommateur, comme les enfants jouent au jeu de construction, en disposant dans tous les ordres possibles des éléments de films préfabriqués à cet usage, et en se les projetant successivement jusqu'à ce qu'il ait épuisé le nombre de combinaisons possibles, pourra se faire ses romans tout seul» (p. 21).
(7) Je cite, pour le plaisir, ces quelques lignes consacrées aux chrétiens progressistes : «Apparemment, en dépit d'expériences concluantes, comme celle des prêtres ouvriers, ils n'ont pas compris que la différence entre les communistes du XXe siècle et les barbares des cinq premiers siècles de notre ère, est que les barbares se convertissaient au christianisme, alors que les communistes au XXe convertissent les chrétiens en leur laissant (pour combien de temps ?) des rites», pp. 140-1.

dimanche, 11 novembre 2012

The Visionary Theories of Pitirim Sorokin

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Culture in Crisis: The Visionary Theories of Pitirim Sorokin

Ex: http://www.satyagraha.wordpress.com/

Introduction

Pitirim Sorokin, a leading 20th century sociologist, is a name you should know. Consider this quote of his:

The organism of the Western society and culture seems to be undergoing one of the deepest and most significant crises of its life. The crisis is far greater than the ordinary; its depth is unfathomable, its end not yet in sight, and the whole of the Western society is involved in it. It is the crisis of a Sensate culture, now in its overripe stage, the culture that has dominated the Western World during the last five centuries. It is also the crisis of a contractual (capitalistic) society associated with it. In this sense we are experiencing one of the sharpest turns in the historical road…. The diagnosis of the crisis of our age which is given in this chapter was written…. Gigantic catastrophes that have occurred since that year…strikingly confirm and develop the diagnosis…. Not a single compartment of our culture, or of the mind of contemporary man, shows itself to be free from the unmistakable symptoms….

Shall we wonder, therefore, that if many do not apprehend clearly what is happening, they have at least a vague feeling that the issue is not merely that of “prosperity,” or “democracy,” or “capitalism,” or the like, but involves the whole contemporary culture, society, and man? …

Shall we wonder, also, at the endless multitude of incessant major and minor crises that have been rolling over us, like ocean waves, during recent decades? Today in one form, tomorrow in another. Now here, now there. Crises political, agricultural, commercial, and industrial! Crises of production and distribution. Crises moral, juridical, religious, scientific, and artistic. Crises of property, of the State, of the family, of industrial enterprise…Each of the crises has battered our nerves and minds, each has shaken the very foundations of our culture and society, and each has left behind a legion of derelicts and victims. And alas! The end is not in view. Each of these crises has been, as it were, a movement in a great terrifying symphony, and each has been remarkable for its magnitude and intensity. (P. Sorokin, SCD, pp. 622-623)

Background

Pitirim Alexandrovich Sorokin (1889 – 1968) was born in Russia to a Russian father and an indigenous (Komi, an ethnic group related to Finns) mother. Like other intellectuals of his age, he was swept up in the revolt against the tsarist government. He held a cabinet post in the short-lived Russian Provisional Government (1917), and had the distinction of being imprisoned successively by both tsarist and Bolshevist factions. Eventually sentenced to death, he was pardoned by Lenin, emigrated, and came to the US. There he enjoyed a long and distinguished academic career, much at Harvard University, where he served as head of the sociology department.

His experience and acute observations of Russian politics left him uniquely suited for understanding the transformational forces of the 20th century. By 1937 he published the first three volumes of his masterpiece, Social and Cultural Dynamics, but he continued to refine his theories for nearly three more decades.

Based on a careful study of world history – including detailed statistical analysis of art, architecture, literature, economics, philosophy, science, and warfare – he identified three strikingly consistent phenomena:

  1. There exist two fundamental, alternative cultural patterns, broadly characterized as materialistic (Sensate) and spiritual (Ideational), along with certain intermediate or mixed patterns.
  2. Every society tends to alternate between materialistic and spiritual periods, sometimes with transitional, mixed periods, in a regular and predictable way.
  3. Times of transition from one orientation to another are characterized by many wars and crises.

Characteristics of the two primary cultural patterns and one important mixed pattern are outlined below.

Sensate (Materialistic) Culture

The first pattern, which Sorokin called Sensate culture, has these features:

  • The defining cultural principle is that true reality is sensory – only the material world is real. There is no other reality or source of values.
  • This becomes the ubiquitous organizing principle of society. It permeates every aspect of culture and defines the basic mentality. People are unable to think in any other terms.
  • Sensate culture pursues science and technology, but dedicates little creative thought to spirituality or religion.
  • Dominant values are wealth, health, bodily comfort, sensual pleasures, power and fame.
  • Ethics, politics, and economics are utilitarian and hedonistic. All ethical and legal precepts are considered mere man-made conventions, relative and changeable.
  • Art and entertainment emphasize sensory stimulation. In the decadent stages of Sensate culture there is a frenzied emphasis on the new and the shocking (literally, sensationalism).
  • Religious institutions are mere relics of previous epochs, stripped of their original substance, and tending to fundamentalism and exaggerated fideism (the view that faith is not compatible with reason).

Ideational (Spiritual) Culture

The second pattern, which Sorokin called Ideational culture, has these characteristics:

  • The defining principle is that true reality is supersensory, transcendent, spiritual.
  • The material world is variously: an illusion (maya), temporary, passing away (“stranger in a strange land”), sinful, or a mere shadow an eternal transcendent reality.
  • Religion often tends to asceticism, or attempts at zealous social reform.
  • Mysticism and revelation are considered valid sources of truth and morality.
  • Science and technology are comparatively de-emphasized..
  • Economics is conditioned by religious and moral commandments (e.g., laws against usury).
  • Innovation in theology, metaphysics, and supersensory philosophies
  • Flourishing of religious and spiritual art (e.g., Gothic cathedrals)

Integral Culture

Most cultures correspond to one of the two basic patterns above. Sometimes, however, a mixed cultural pattern occurs. The most important mixed culture Sorokin termed an Integral culture (also sometimes called an idealistic culture – not to be confused with an Ideational culture.) An Integral culture harmoniously balances sensate and ideational tendencies. Characteristics of an Integral culture include the following:

  • Its ultimate principle is that the true reality is richly manifold, a tapestry in which sensory, rational, and supersensory threads are interwoven.
  • All compartments of society and the person express this principle.
  • Science, philosophy, and theology blossom together.
  • Fine arts treat both supersensory reality and the noblest aspects of sensory reality.

Western Cultural History

Sorokin examined a wide range of world societies. In each he believed he found evidence of the regular alternation between Sensate and Ideational orientations, sometimes with an Integral culture intervening. According to Sorokin, Western culture is now in the third Sensate epoch of its recorded history. Table 1 summarizes his view of this history.

Table 1
Cultural Periods of Western Civilization According to Sorokin

Period Cultural Type Begin End
Greek Dark Age Sensate 1200 BC 900 BC
Archaic Greece Ideational 900 BC 550 BC
Classical Greece Integral 550 BC 320 BC
Hellenistic – Roman Sensate 320 BC 400
Transitional Mixed 400 600
Middle Ages Ideational 600 1200
High Middle Ages, Renaissance Integral 1200 1500
Rationalism, Age of Science Sensate 1500 present

Based on a detailed analysis of art, literature, economics, and other cultural indicators, Sorokin concluded that ancient Greece changed from a Sensate to an Ideational culture around the 9th century BC; during this Ideational phase, religious themes dominated society (Hesiod, Homer).

Following this, in the Greek Classical period (roughly 600 BC to 300 BC), an Integral culture reigned: the Parthenon was built; art (the sculptures of Phidias, the plays of Aeschylus and Sophocles) flourished, as did philosophy (Plato, Aristotle). This was followed by a new Sensate age, associated first with Hellenistic  (the empire founded by Alexander the Great) culture, and then the Roman empire.

As Rome’s Sensate culture decayed, it was eventually replaced by the Christian Ideational culture of the Middle Ages. The High Middle Ages and Renaissance brought a new Integral culture, again associated with many artistic and cultural innovations. After this Western society entered its present Sensate era, now in its twilight. We are due, according to Sorokin, to soon make a transition to a new Ideational, or, preferably an Integral cultural era.

Cultural Dynamics

sorokin-hardcover-cover-art.jpgSorokin was especially interested in the process by which societies change cultural orientations. He opposed the view, held by communists, that social change must be imposed externally, such as by a revolution. His principle of imminent change states that external forces are not necessary: societies change because it is in their nature to change. Although sensate or ideational tendencies may dominate at any given time, every culture contains both mentalities in a tension of opposites. When one mentality becomes stretched too far, it sets in motion compensatory transformative forces.

Helping drive transformation is the fact that human beings are themselves partly sensate, partly rational, and partly intuitive. Whenever a culture becomes too exaggerated in one of these directions, forces within the human psyche will, individually and collectively – work correctively.

Crises of Transition

As a Sensate or Ideational culture reaches a certain point of decline, social and economic crises mark the beginning of transition to a new mentality. These crises occur partly because, as the dominant paradigm reaches its late decadent stages, its institutions try unsuccessfully to adapt, taking ever more drastic measures. However, responses to crises tend to make things worse, leading to new crises. Expansion of government control is an inevitable by-product:

The main uniform effect of calamities upon the political and social structure of society is an expansion of governmental regulation, regimentation, and control of social relationships and a decrease in the regulation and management of social relationships by individuals and private groups. The expansion of governmental control and regulation assumes a variety of forms, embracing socialistic or communistic totalitarianism, fascist totalitarianism, monarchial autocracy, and theocracy. Now it is effected by a revolutionary regime, now by a counterrevolutionary regime; now by a military dictatorship, now by a dictatorship, now by a dictatorial bureaucracy. From both the quantitative and the qualitative point of view, such an expansion of governmental control means a decrease of freedom, a curtailment of the autonomy of individuals and private groups in the regulation and management of their individual behavior and their social relationships, the decline of constitutional and democratic institutions.” (MSC p. 122)

But, as we shall consider below, at the same time as these crises occur, other constructive forces are at work.

Trends of our Times

Sorokin identified what he considered three pivotal trends of modern times. The first trend is the disintegration of the current Sensate order:

In the twentieth century the magnificent sensate house of Western man began to deteriorate rapidly and then to crumble. There was, among other things, a disintegration of its moral, legal, and other values which, from within, control and guide the behavior of individuals and groups. When human beings cease to be controlled by deeply interiorized religious, ethical, aesthetic and other values, individuals and groups become the victims of crude power and fraud as the supreme controlling forces of their behavior, relationship, and destiny. In such circumstances, man turns into a human animal driven mainly by his biological urges, passions, and lust. Individual and collective unrestricted egotism flares up; a struggle for existence intensifies; might becomes right; and wars, bloody revolutions, crime, and other forms of interhuman strife and bestiality explode on an unprecedented scale. So it was in all great transitory periods. (BT, 1964, p. 24)

The second trend concerns the positive transformational processes which are already at work:

Fortunately for all the societies which do not perish in this sort of transition from one basic order to another, the disintegration process often generates the emergence of mobilization of forces opposed to it. Weak and insignificant at the beginning, these forces slowly grow and then start not only to fight the disintegration but also to plan and then to build a new sociocultural order which can meet more adequately the gigantic challenge of the critical transition and of the post-transitory future. This process of emergence and growth of the forces planning and building the new order has also appeared and is slowly developing now…

The epochal struggle between the increasingly sterile and destructive forces of the dying sensate order and the creative forces of the emerging, integral, sociocultural order marks all areas of today’s culture and social life, and deeply affects the way of life of every one of us. (BT, 1964, pp. 15-16)

The third trend is the growing importance of developing nations:

“The stars of the next acts of the great historical drama are going to be — besides Europe, the Americas, and Russia — the renascent great cultures of India, China, Japan, Indonesia, and the Islamic world. This epochal shift has already started…. Its effects upon the future history of mankind are going to be incomparably greater than those of the alliances and disalliances of the Western governments and ruling groups. (BT, 1964, pp. 15-16)

Social Transformation and Love

While the preceding might suggest that Sorokin was a cheerless prophet of doom, that is not so, and his later work decidedly emphasized the positive. He founded the Harvard Research Center for Creative Altruism, which sought to understand the role of love and altruism in producing a better society. Much of the Center’s research was summarized in Sorokin’s second masterpiece, The Ways and the Power of Love.

This book offered a comprehensive view on the role of love in positively transforming society. It surveyed the ideals and tactics of the great spiritual reformers of the past – Jesus Christ, the Buddha, St. Francis of Assisi, Gandhi, etc. – looking for common themes and principles.

We need, according to Sorokin, not only great figures like these, but also individuals who seek to exemplify the same principles within their personal spheres of influence.  Personal change must precede collective change, and nothing transforms a culture more effectively than positive examples. What is essential today, according to Sorokin, is that individuals reorient their thinking and values to a universal perspective – to seek to benefit all human beings, not just oneself or ones own country.

A significant portion of the book is devoted to the subject of yoga (remarkable for a book written in 1954), which Sorokin saw as an effective means of integrating the intellectual and sensate dimensions of the human being. At the same time he affirmed the value of traditional Western religions and religious practices.

The Road Ahead

Sorokin’s theories supply hope, motivation, and vision. They bolster hope that there is a light at the end of the tunnel, and that it may be not too far distant. The knowledge that change is coming, along with an understanding of his theories generally, enables us to try to steer change in a positive direction. Sorokin left no doubt but that we are at the end of a Sensate epoch. Whether we are headed for an Ideational or an Integral culture remains to be seen. It is clearly consistent with his theories that an Integral culture is attainable and is something to seek:  a new Renaissance.

A similar view was expressed by Frijtof Capra, who, in his book, The Turning Point, suggested we are on the verge of one of the greatest cultural transitions ever:

The rhythmic recurrences and patterns of rise and decline that seem to dominate human cultural evolution have somehow conspired to reach their points of reversal at the same time. The decline of patriarchy, the end of the fossil-fuel age, and the paradigm shift occurring in the twilight of the sensate culture are all contributing to the same global process. The current crisis, therefore, is not just a crisis of individuals, governments, or social institutions; it is a transition of planetary dimensions. As individuals, as a society, as a civilization, and as a planetary ecosystem, we are reaching the turning point…

During this phase of revaluation and cultural rebirth it will be important to minimize the hardship, discord, and disruption that are inevitably involved in periods of great social change, and to make the transition as painless as possible. It will therefore be crucial to go beyond attacking particular social groups or institutions, and to show how their attitudes and behavior reflect a value system that underlies our whole culture and that has now become outdated. It will be necessary to recognize and widely communicate the fact that our current social changes are manifestations of a much broader, and inevitable, cultural transformation. Only then will we be able to approach the kind of harmonious, peaceful cultural transition described in one of humanity’s oldest books of wisdom, the Chinese I Ching, or Book of Changes: “The movement is natural, arising spontaneously.” (Capra, pp. 32-34)

One reason that change may happen quickly is because people already know that the present culture is oppressive. Expressed public opinion, which tends to conformity, lags behind private opinion. Once it is sufficiently clear that the tide is changing, people will quickly join the revolution. The process is non-linear.

Christianity and Islam

Viewed in terms of Sorokin’s theories, the current tensions between the West and Islam suggest a conflict is between an overripe ultra-materialistic Western culture, detached from its religious heritage and without appreciation of transcendent values, against a medieval Ideational culture that has lost much of its earlier spiritual creativity. As Nieli (2006) put it:

“With regard to the current clash between Islam and the West, Sorokin would no doubt point out that both cultures currently find themselves at end stages of their respective ideational and sensate developments and are long overdue for a shift in direction. The Wahabist-Taliban style of Islamic fundamentalism strays as far from the goal of integral balance in Sorokin’s sense as the one-sidedly sensate, post-Christian societies of Northern and Western Europe. Both are ripe for a correction, according to Sorokin’s theory of cultural change, the Islamic societies in the direction of sensate development (particularly in the areas of science, technology, economic productivity, and democratic governance), the Western sensate cultures in the direction of ideational change (including the development of more stable families, greater temperance and self-control, and the reorientation of their cultural values in a more God-centered direction). Were he alive today, Sorokin would no doubt hold out hope for a political and cultural rapprochement between Islam and the West.” (Nieli, p. 373)

The current state of affairs between Christianity and Islam, then, is better characterized as that of mutual opportunity rather than unavoidable conflict. The West can share its technological advances, and Islam may again – as it did around the 12th century – help reinvigorate the spirit of theological and metaphysical investigation in the West.

Individual and Institutional Changes

Institutions must adapt to the coming changes or be left behind. Today’s universities are leading transmitters of a sensate mentality. It is neither a secret nor a coincidence that Sorokin’s ideas found little favor in academia. A new model of higher education, perhaps based on the model small liberal arts colleges, is required.

Politics, national and international, must move from having conflict as an organizing principle, replacing it with principles of unity and the recognition of a joint destiny of humankind.

A renewal in religious institutions is called for. Christianity, for example, despite its protestations otherwise, still tends decidedly towards an ascetic dualism – the view that the body is little more than a hindrance to the spirit, and that the created world is merely a “vale of tears.” Increased understanding and appreciation of the spiritual traditions of indigenous cultures, which have not severed the connection between man and Nature, may assist in this change.

Sorokin emphasized, however, that the primary agent of social transformation is the individual. Many simple steps are available to the ordinary person. Examples include the following:

  • Commit yourself to ethical and intellectual improvement. In the ethical sphere, focus first on self-mastery. Be eager to discover and correct your faults, and to acquire virtue. Think first of others. See yourself as a citizen of the world. Urgently needed are individuals who can see and seek the objective, transcendent basis of ethical values.
  • Cultivate the Intellect: study philosophy; read books and poetry; listen to classical music; visit an art museum.
  • Practice yoga.
  • Be in harmony with Nature: plant a garden; go camping; protect the environment.
  • Reduce the importance of money and materialism generally in your life.
  • Turn off the television and spend more time in personal interaction with others.

A little reflection will doubtless suggest many other similar steps. Recognize that in changing, you are not only helping yourself, but also setting a powerfully transformative positive example for others.

The Supraconscious

Sorokin’s later work emphasized the role of the supraconscious — a Higher Self or consciousness that inspires and guides our rational mind. Religions and philosophical systems universally recognize such a higher human consciousness, naming it variously: Conscience, Atman, Self, Nous, etc. Yet this concept is completely ignored or even denied by modern science. Clearly this is something that must change. As Sorokin put it:

By becoming conscious of the paramount importance of the supraconscious and by earnest striving for its grace, we can activate its creative potential and its control over our conscious and unconscious forces. By all these means we can break the thick prison walls erected by prevalent pseudo-science around the supraconscious. (WPL, p. 487)

The reality of the supraconscious is a cause for hope and humility: hope, because we are confident that the transpersonal source of human supraconsciousness is providential, guiding culture though history with a definite plan; and humility, because it reminds us that our role in the grand plan is achieved by striving to rid ourselves of preconceived ideas and selfishly motivated schemes, and by increasing our capacity to receive and follow inspiration. It is through inspiration and humility that we achieve a “realization of man’s unique creative mission on this planet.” (CA, p. 326).

References

  • Coser, Lewis A. Masters of Sociological Thought. 2nd ed. New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1977.
  • Sorokin, Pitirim A. Social and Cultural Dynamics. 4 vols. 1937 (vols. 1-3), 1941 (vol. 4); rev. 1957 (reprinted: Transaction Publishers, 1985). [SCD]
  • Sorokin, Pitirim A. The Crisis of our Age. E. P. Dutton, 1941 (reprinted 1957). [CA]

Pitirim Sorokin

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Pitirim Sorokin

by Morris Berman

Ex: http://morrisberman.blogspot.be/

 

“Eat bread and salt and speak the truth.” —old Russian proverb
 
I suddenly remembered, the other day, that it had been ages since I dipped into the work of Pitirim Sorokin, the Russian sociologist who immigrated to the United States and founded the Department of Sociology at Harvard, where he taught for nearly thirty years. His four-volume Social and Cultural Dynamics was written over 1937-41, and rereading it at this late date, one has to marvel at the prescience of the man. Much of what he predicted regarding the cycles of civilization is coming true in our time.
 
Sorokin distinguished between what he called Ideational cultures and Sensate cultures. The former, he wrote, are spiritual in nature, focusing on the inner life of human beings. The latter, on the other hand—of which the West for the last five hundred years is a classic example—are preoccupied with the material modification of the external world by means of science and technology, and are the opposite of the Ideational ones.  The Sensate culture of the last five centuries, he claimed, is now in crisis; in its dying phase.
 
(Sorokin also posited the existence of an intermediary-type culture between the Sensate and the Ideational, which he called Idealistic, and which is a compromise between faith and pure empiricism. What we find here is a harmonious synthesis among reason, faith, and the senses as sources of knowing. Sad to say, the West has seen only two such periods in its long history, ones that might well be termed golden ages: Greece in the fifth and fourth centuries B.C., and Europe during A.D. 1200-1350.  Knowledge was not narrowed to one vista, he said, nor reduced to one source. Think Aeschylus, Thomas Aquinas.)
 
So Sorokin believed that present-day Sensate/scientific culture was in a state of fatigue; that it had run its course. When you have the excessive domination of a single system, he wrote, eventually it begins to exhibit signs of self-destruction.  The pendulum starts to swing in the other direction because each type of culture contains only part of the truth, and is thus an untruth.  But this partial truth is mistaken for the whole truth, and becomes the basis for culture and social life—which is the untruth of the situation. The false part of the culture tends to grow, and eventually, the whole thing goes out of kilter. In other words, the untruth evokes a strong reaction, creating a dynamic of change and disintegration. (Cf. Hegel, or even Aristotle: any reality contains its own negation within itself, producing its antithesis over time.) Cultures dominated by one-sided mentalities, said Sorokin, fall victim to their own narrow-mindedness.  He goes on:
 
“The great crisis of Sensate culture is here in all its stark reality. Before our very eyes this culture is committing suicide. If it does not die in our lifetime, it can hardly recover from the exhaustion of its creative forces and from the wounds of self-destruction. Half-alive and half-dead, it may linger in its agony for decades; but its spring and summer are definitely over….I hear distinctly the requiem that the symphony of history is playing in its memory.”
 
Sorokin’s predictions for this end-game scenario (remember, he’s writing this nearly seventy-five years ago) were as follows:
 
1. The boundary between true and false, and beautiful and ugly, will erode.  Conscience will disappear in favor of special interest groups. Force and fraud will become the norm; might will become right, and brutality rampant. It will be a bellum omnium contra omnes, and the family will disintegrate as well. “The home will become a mere overnight parking place.”
 
2. Sensate values “will be progressively destructive rather than constructive, representing in their totality a museum of sociocultural pathology….The Sensate mentality will increasingly interpret man and all values ‘physicochemically,’ ‘biologically,’ ‘reflexologically,’ ‘endocrinologically,’ ‘behavioristically,’ ‘economically’…[etc.].”
 
3. Real creativity will die out. Instead, we shall get a multitude of mediocre pseudo-thinkers and vulgar groups and organizations. Our belief systems will turn into a strange chaotic stew of science, philosophy, and magical beliefs.  “Quantitative colossalism will substitute for qualitative refinement.” What is biggest will be regarded as best. Instead of classics, we shall have best-sellers. Instead of genius, technique. Instead of real thought, Information. Instead of inner value, glittering externality.  Instead of sages, smart alecs. The great cultural values of the past will be degraded; “Michelangelos and Rembrandts will be decorating soap and razor blades, washing machines and whiskey bottles.”
 
4. Freedom will become a myth. “Inalienable rights will be alienated; Declarations of Rights either abolished or used only as beautiful screens for an unadulterated coercion. Governments will become more and more hoary, fraudulent, and tyrannical, giving bombs instead of bread; death instead of freedom; violence instead of law.” Security will fade; the population will become weary and scared.  “Suicide, mental disease, and crime will grow.”
 
5. The dies irae of transition will not be fun to live through, but the only way out of this mess, he wrote, is precisely through it. Under the conditions outlined above, the “population will not be able to help opening its eyes [this will be a very delayed phase in the U.S., I’m guessing] to the hollowness of the declining Sensate culture…. As a result, it will increasingly forsake it and shift its allegiance to either Ideational or Idealistic values.” Finally, we shall see the release of new creative forces, which “will usher in a culture and a noble society built not upon the withered Sensate root but upon a healthier and more vigorous root of integralistic principle.” In other words, we can expect “the emergence and slow growth of the first components of a new sociocultural order.”
 
Hey, one can only hope.

vendredi, 09 novembre 2012

La teoria dei cicli di Nikolai Kondratiev

La teoria dei cicli di Nikolai Kondratiev

Gli studi dell’economista russo vittima delle purghe nell’Urss di Stalin

Alexander Aivazov e Andrej Kobyakov

Ex: http://rinascita.eu/  

kondrqtiev.jpgLa crisi finanziaria che è scoppiata negli Stati Uniti e che dopo ha coinvolto tutto il mondo, richiede adeguate misure da parte della comunità globale. Ma quali azioni dovrebbero essere considerate adeguate in questo caso?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima identificare le vere ragioni sottostanti che hanno creato la crisi, e stimare la sua lunghezza e profondità. Gli economisti liberali dogmatici continuano a convincerci che in diversi mesi, o almeno in uno o due anni, tutto si “calmerà”, il mondo tornerà ad un progressivo sviluppo, mentre la Russia si sposterà verso un modello economico dell’innovazione.
È veramente così?
Più di 80 anni fa l’importante economista russo Prof. Nikolai D. Kondratiev descrisse e dimostrò teoricamente l’esistenza di grandi cicli di sviluppo economico (45-60 anni), all’interno dei quali le “riserve dei maggiori valori materiali” globali vengono nuovamente riempite, cioè in cui le forze produttive mondiali messe assieme a ogni ciclo trascendono verso un livello più alto.
Secondo Kondratiev, ogni ciclo ha una fase ascendente e una declinante. La dinamica interna di cicli (denominati cicli K in base al suo nome) e il principio della loro fluttuazione si basano sul meccanismo di accumulazione, concentrazione, dispersione e svalutazione del capitale come fattori chiave dello sviluppo dell’economia (capitalista) di mercato.
Inoltre Kondratiev indicò che questa regolarità ciclica esisterà finché persiste la modalità capitalista di produzione. “Ogni nuova fase del ciclo è predeterminata dall’accumulazione di fattori della fase precedente, ogni nuovo ciclo segue il ciclo precedente in modo tanto naturale quanto una fase di ciascun ciclo segue l’altra fase. Però bisogna capire che ogni nuovo ciclo emerge in nuove particolari condizioni storiche, su un nuovo livello di sviluppo delle forze produttive, e perciò non è una semplice reiterazione del ciclo precedente”. [Non una semplice reiterazione, ma di fatto una reiterazione, in base allo schema oggettivo di Kondratiev. Vero solo in un particolare sistema economico-finanziario].
Nikolai Kondratiev riuscì a studiare solo due grandi cicli e mezzo, terminando la sua ricerca sulla fase crescente del terzo ciclo. Egli pubblicò il suo rapporto quando si era già nella fase discendente del terzo ciclo, nel 1926, e quando la grandezza e lunghezza della fase discendente non poteva ancora essere stabilita (così egli predisse la grande depressione).
Purtroppo per la scienza economica internazionale Nikolai Kondratiev cadde in disgrazia: nel 1928 egli perse la sua posizione di direttore del suo istituto di ricerca; nel 1930 fu arrestato per “attività antisovietiche” infine condannato a morte. I marxisti ortodossi, comprendendo la stoNikolai ria come un processo lineare unidirezionale e prevedendo il crollo del capitalismo il “ giorno dopo”, percepirono la sua teoria del graduale miglioramento dell’ordine capitalista come un’eresia pericolosa. Altri critici videro nel regolare declino dell’economia che egli aveva descritto un sabotaggio dei piani economici quinquennali (sebbene Kondratiev avesse preso parte alla elaborazione del primo piano quinquennale). Come risultato l’eredità scientifica di Kondratiev fu occultata per quasi sessant’anni. Solo nel 1984 l’economista Stanislav Menshikov, uno scienziato di fama mondiale coinvolto nelle previsioni economiche per conto delle Nazioni Unite, amico e coautore di John Kenneth Galbraith, riabilitò il nome di Kondratiev in un articolo sulla rivista “Communist”.
Nel 1989 Menshikov e sua moglie pubblicarono col titolo “Long Waves in Economy: When the Society Changes its Skin” [“Le onde lunghe in economia: quando la società cambia la sua pelle”] la più profonda analisi della teoria di Kondratiev. Un altro prominente autore russo, Sergey Glazyev, contribuì alla teoria di Kondratiev, fornendo un’analisi strutturale dei sottostanti cambiamenti negli “schemi (modi) tecnologici”.
Il nome di Kondratiev era ben noto agli economisti occidentali. Però Stanislav Menshikov notò un fenomeno curioso: l’interesse alla teoria dei grandi cicli solitamente ringiovaniva durante le fasi declinanti, negli anni 20-30 e negli anni 70 e 80, mentre nelle fasi crescenti, quando l’economia globale si sviluppa progressivamente e le fluttuazioni, concordemente alla teoria di Kondratiev, non sono molto profonde, l’interesse scompare.

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Una Depressione prevista
 
Le previsioni di Nikolai Kondratiev furono pienamente confermate nel periodo della grande depressione che coincise con il punto più basso della fase declinante del terzo periodo. Una periodizzazione ulteriore è argomento di polemica. I ricercatori si dividono principalmente in due gruppi, applicando differenti approcci alla determinazione di cicli.
Il primo gruppo che basa le sue analisi principalmente sugli indici dell’economia reale—quantità della produzione, dinamica dell’impiego, attività di investimento e varie proporzioni strutturali—ritengono che la fase declinante del terzo ciclo terminò all’inizio della seconda guerra mondiale.
La fase crescente del quarto ciclo iniziò durante la guerra e continuò sino a metà degli anni 60. La crisi del dollaro Usa e il crollo sistema di Bretton Woods nel 1968-71 divenne il punto critico per la transizione alla fase declinante, che corrispose con la crisi petrolifera e la stagflazione degli anni 70. La “Reaganomics” negli Stati Uniti e la politica di Margaret Thatcher in Gran Bretagna segnarono la transizione al successivo quinto ciclo K, con la sua fase crescente che ha coperto la seconda metà degli anni 80 e gli anni 90.
Come al solito, alla fine della fase crescente, nella cosiddetta zona di saturazione, ci troviamo di fronte a fenomeni quali la diminuzione della percentuale di guadagno nel settore dell’economia reale e un imponente fuoriuscita di capitali verso la sfera della speculazione finanziaria che generò prima un surriscaldamento del mercato azionario (fine anni 90) e poi del mercato dei mutui (inizio anni 2000).
Il secondo gruppo di ricercatori, che si basa piuttosto sugli indici finanziari, cioè sulla dinamica del mercato azionario e sulla dinamica del tasso di guadagno sulle obbligazioni, estende la fase declinante del terzo ciclo per l’intero periodo della seconda guerra mondiale e la ricostruzione postbellica sino al 1949. In modo simile al primo gruppo, essi collocano il punto estremo della fase crescente a inizio anni 70, ma interpretano il declino di quel periodo come una “recessione primaria” seguita da un plateau che dura sino all’inizio del ventunesimo secolo. Essi indicano che un simile plateau è corrisposto agli andamenti crescenti del mercato azionario nei cicli precedenti, rispettivamente nel 1816-1835, 1864-1874, e 1921-1929. Il secondo gruppo di ricercatori stima la durata media di un ciclo in cinquant’anni, ma l’ultimo ciclo nella loro descrizione viene stranamente protratto oltre i sessant’anni.
Perciò, nonostante le significative differenze metodologiche degli approcci, entrambi i gruppi di analisti identificano negli anni 2000 l’inizio di un declino, cioè di una fase di depressione.
 
L’attuale crisi è all’inizio
 
Di fronte al declino ci aspettiamo un nuovo scoppio di interesse verso la teoria di Kondratiev. Nel frattempo i monetaristi liberali le cui idee hanno dominato la scienza economica negli ultimi 25 anni vengono screditate, i loro sforzi di interpretare l’attuale crisi come una fluttuazione temporanea nell’economia globale, rivela solo la loro ignoranza economica. L’esperienza dei precedenti cicli K indica che le misure tradizionali contro la crisi sono efficienti solo nella fase crescente del ciclo, nel periodo di fiorente crescita quando le recessioni sono leggere e transitorie sullo sfondo di uno sviluppo progressivo dell’economia globale.
Gerhard Mensch, uno scienziato che ha studiato simili processi durante la fase declinante degli anni 70, ha sottolineato che sotto le condizioni di deterioramento della congiuntura economica i metodi monetaristi per risolvere il problema sono inefficienti, dato che politiche restrittive del credito inevitabilmente colpiscono i prezzi al consumo, mentre politiche liberali pro-attive favoriscono operazioni di speculazione. E’ piuttosto naturale che l’approccio fortemente restrittivo scelto dalla Banca centrale europea risulti in una crescita dell’inflazione, sebbene cinque anni fa gli effetti della stessa politica risultarono opposti.
All’inizio della crisi l’inflazione in Europa non superava il 2%, ma ad oggi il potere d’acquisto è crollato, nonostante gli elevati livelli dei tassi di rifinanziamento introdotti dalla BCE. Nel frattempo la politica liberale, condotta sino a un periodo recente negli Stati Uniti, ha alimentato la speculazione sul mercato azionario e l’espansione di capitali fittizi (gonfiati), stimolando un incremento speculativo dei prezzi nei settori dei beni più commerciabili: mercato immobiliare, oro, petrolio e cibo. L’incremento dei prezzi non ha alcuna relazione con la quantità di produzione e con la saturazione della domanda.
Nonostante tutti gli sforzi intrapresi dal (l’ex) presidente della BCE Jean-Claude Trichet e dal presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, cambiamenti positivi non vengono raggiunti. L’economia globale deve passare attraverso un periodo di “ ricarica” sbarazzandosi del capitale sovraccumulato tramite una sua massiccia svalutazione nel processo di una inevitabile e lunga recessione. La svalutazione del capitale monetario probabilmente procederà attraverso una catena di crack finanziari, che daranno inizio al terzo default del dollaro Usa (come già avvenne negli anni 20-30 e negli anni 70). Perciò, l’economia globale verrà scossa molte volte, l’attuale crisi è solo un colpettino alla cravatta segno di eventi più grandi che arriveranno nei prossimi anni. L’economia globale probabilmente raggiungerà il suo punto più basso alla fine della fase declinante del quinto ciclo K, tra il 2012 e il 2015.
Il crollo del sistema finanziario Usa può avvenire uno o due anni in anticipo nel caso che il nuovo presidente Usa scelga un approccio dogmatico agli attuali problemi.
 
Titolo originale: “Nikolai Kondratiev’s “Long Wave”: The Mirror of the Global Economic Crisis”
Alexander Aivazov
e Andrei Kobyakov
rpmonitor.ru/ - mlnews
 
Box
I TRE CICLI ANALIZZATI
 
I. Fase crescente: dalla fine degli anni 80 del 1700, inizio anni 90, sino al 1810-1817.
Fase declinante: dal 1810-1817 al 1844-1851.
II. Fase crescente: dal 1844-1851 al 1870-1875.
Fase declinante: dal 1870-1875 al 1890-1896.
III. Fase crescente: dal 1890-1896 al 1914-1920.
La nuova ricerca (primo gruppo)
I ricercatori del primo gruppo sono convinti che i cicli si comprimono con l’intensificazione del progresso scientifico-tecnologico: dagli anni 40 la lunghezza di un ciclo si è ridotta da 50-55 a 40-45 anni. La continuazione della regolarità di Kondratiev risulta in questo modo:
Fase declinante del terzo ciclo: dal 1914-1920 (negli Stati Uniti dalla fine degli anni 20) al 1936-1940.
IV. Fase crescente: dal 1936-1940 al 1966-1971.
Fase declinante: dal 1966-1971 al 1980-1985.
V. Fase crescente: dal 1980-1985 al 2000-2007.
Fase declinante: dal 2000-2007 sino approssimativamente al 2015-2025 (previsione).
VI. Fase crescente: dal 2015-2025 al 2035-2045 (previsione).
In base al secondo gruppo di analisti, la regolarità di Kondratiev prosegue in questo modo:
Fase declinante del terzo ciclo: dal 1914-1920 al 1949.
IV. Fase crescente: dagli anni 50-70, con una “recessione primaria” sino al 1982, seguita da un plateau sino agli anni 2000.
Fase declinante a partire da inizio, metà degli anni 2000.
 
 
LE ONDE DI KONDRATIEV
Quando si parla di onde, in natura si pensa a quelle marine o a quelle elettromagnetiche, mentre in Borsa si pensa a quelle di Elliot.
Oggi però voglio parlarvi delle onde di Kondratiev, una teoria risalente agli anni ’20. L’argomento è in realtà d’estrema attualità, visto che è strettamente legato all’andamento dell’economia e dei mercati finanziari in generale, e a quello delle materie prime (o commodities) in particolare.
Nel 1925 l’economista russo Nikolai Kondratiev (1892-1938) osservò che lo sviluppo delle economie di mercato è caratterizzato da onde o supercicli, lunghi 50-60 anni, ognuna delle quali suddivisibile di quattro fasi: espansione, recessione, depressione e ripresa.
Negli anni Trenta del ‘900 l’austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950) riconsiderò la teoria e scoprì che queste onde K corrispondono agli sviluppi dei cicli di innovazione. Sono le nuove tecnologie, quindi, che caratterizzano questi supercicli e che permettono la creazione di nuove industrie e attività, spesso in nuove localizzazioni divenute più vantaggiose. Il primo ciclo di Kondratiev (1770-1825; Rivoluzione industriale) corrisponde ai primi sviluppi in Gran Bretagna della siderurgia basata sul carbon fossile e dell’industria tessile basata sul vapore. Queste nuove tecnologie causarono la concentrazione dell’attività industriali, fino a quel momento frammentate e disseminate in un numero sterminato di piccole officine e laboratori, in grandi fabbriche localizzate sul carbone.
L’applicazione del vapore ai trasporti ferroviari e marittimi sostenne il secondo ciclo (1825-1880; Era del vapore e delle ferrovie) creando, sempre in Inghilterra, nuovi impianti industriali non solo sui bacini carboniferi, ma anche in centri come Crewe, Derby o Swindon.
Il terzo ciclo (1880-1930; Era dell’acciaio, dell’elettricità e dell’ingegneria pesante)sostenuto dall’invenzione dell’elettricità, del telegrafo, del telefono e del motore a scoppio, nonché dallo sviluppo dell’industria petrolchimica, interessò soprattutto gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, con conseguente passaggio del primato industriale dalla Gran Bretagna all’Europa continentale ed agli Stati Uniti.
Il quarto ciclo (1930-1980; Era del petrolio, dell’automobile e della produzione di massa) sostenuto, oltre che dall’ulteriore sviluppo della petrolchimica, da industrie ad alta tecnologia come quella televisiva e hi-fi, aerospaziale, delle fibre sintetiche e dell’elettronica, ha interessato soprattutto gli Stati Uniti, la Germania e ancora il Regno Unito.
Oggi viviamo in un quinto ciclo innovativo (Era dell’informatica e delle telecomunicazioni) che sta dando vita ad un’economia dell’informazione, che sfrutta l’energia immateriale del cervello umano per la ricerca e lo sviluppo (R&S) in campi come servizi per l’industria, creazione di software, biotecnologia e robotica, ecc, e che in modo sempre più diretto tende a legare la costosa R&S all’industria finale e ai servizi. In queste nuove attività gli Stati Uniti hanno un temibile rivale nelGiappone.
La recessione degli anni Settanta fu il risultato congiunto dell’aumento dei prezzi del greggio e della transizione dal quarto al quinto ciclo, che qualcuno ha individuato anche nel concetto di società post-industriale. Infatti, nei Paesi più sviluppati l’industria ha progressivamente ceduto il passo ai servizi, anche a causa della forte concorrenza dei nuovi paesi industrilizzati (o NIC) e dei produttori emergenti del Terzo Mondo.
Veniamo ai nostri giorni. Si legge ovunque dell’interesse per le commodities, prima fra tutte il petrolio, ma si teme, al contempo, che la lunga ascesa delle quotazioni, che dura ormai da circa un quinquennio, possa riservare brutte sorprese. Ci sono però economisti e investitori, (come Marc Faber, Shane Oliver ed altri – fra i quali mi annovero, nel mio piccolo), che ritengono che l’attuale fase storica rialzista delle commodities sia solo all’inizio.
Se si condivide la teoria delle onde K, infatti, il superciclo attuale è ancora in una fase di espansione, caratterizzata da un incremento degli investimenti capitali, da nuove tecnologie e da nuovi mercati. In questo contesto la domanda di materie prime soprattutto da parte di NIC quali Cina e India è, non solo forte, ma ancora in costante aumento, a fronte di un’offerta contenuta, sia nello stock che nella dinamica di crescita.
Kondratiev non beneficiò mai delle sue analisi: nel 1930 venne arrestato con l’accusa di appartenere ad un partito politico illegale nella Russia staliniana e dopo 8 anni di carcere, fu giustiziato. Le sue idee, però, sopravvissero e potrebbero trovare ulteriore conferma fra 15-20 anni.


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jeudi, 08 novembre 2012

Miglio e le sue Lezioni di Scienze Politiche

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Miglio e le sue Lezioni di Scienze Politiche

Una riflessione sull’attualità della storia delle idee e delle prassi politiche illustrata dallo scomparso costituzionalista italiano

Teodoro Klitsche de la Grange

Ex: http://rinascita.eu/  

In due volumi – Storia delle dottrine politiche e Scienza della politica - sono raccolte le “Lezioni di politica” di Gianfranco Miglio. Il primo volume su la Storia delle dottrine Politiche, mentre il secondo tratta la Scienza della politica e sono stati curati rispettivamente da Davide Bianchi e da Alessandro Vitale. La ricostruzione delle lezioni, fatte prevalentemente su registrazioni (e non su appunti degli allievi) ha evitato il consueto problema della fedeltà degli appunti al pensiero dello studioso.
Nella presentazione al primo volume Lorenzo Ornaghi e Pierangelo Schiera esordiscono scrivendo che “Si sta verificando, da qualche tempo, un fatto abbastanza raro nel panorama italiano degli studi sulla politica: la ristampa di scritti di Gianfranco Miglio risalenti ormai a più di cinquant’anni fa. Se questa è la misura della classicità, allora si deve cominciare a pensare che egli sia diventato un Classico”; ed è proprio l’impressione confermata dalla lettura di questi volumi: Miglio è un classico. E lo è non solo per il suo richiamarsi al pensiero (o ai pensatori) politici “classici” (da Tucidide a Machiavelli, da Hobbes agli elitisti, da Burke a Schmitt), ma perché, con le sue opere, vi aggiunge altro. Sull’approccio metodologico Daniele Bianchi nell’introduzione al primo volume scrive “Miglio aveva in uggia (come poche altre cose) la politologia empirica di marca anglosassone, per cui la sua Scienza della politica – a cui alla fine approdò – aveva contorni specifici, decisamente minoritari nella comunità scientifica italiana. Non essendo rivolta a misurare dati quantitativi, la sua era una Scienza della politica “concettuale” dei comportamenti umani nelle cose politiche. In altre parole, compito del politologo era per lui quello di dissodare il territorio sterminato e informe della storia, per portare alla luce le “costanti” nelle azioni degli uomini (p. 21). In effetti anche nella “Presentazione” alle Categorie del politico, scritta da Miglio si ritrova questa considerazione, nel commento che lo studioso lariano fa all’analogo ironico giudizio espresso da Schmitt nella “Premessa” a detto volume. E’ inutile dire che il pensiero di Miglio, pur non essendo “quantitativista” era tuttavia rigorosamente realista.
A tale proposito è interessante quanto Miglio sostiene nella “Lezione introduttiva” sul nesso che lega fatti e idee nella storia della politica “Il nesso che lega idee e fatti, ideologie e istituzioni è molto stretto: sarebbe infatti impossibile ricostruire una storia delle istituzioni senza fare riferimento alle ideologie che la sorreggono. In altre parole le ideologie non sono altro che la “bandiera” delle classi politiche, vessillo che permea di sé le istituzioni quando le classi stesse giungono al potere. Di norma, infatti il succedersi delle classi politiche reca con se anche l’avvento di nuove istituzioni, o la trasformazione delle precedenti, processi in cui le ideologie giocano un ruolo decisivo” (pp. 29-30).
L’altro rapporto su cui Miglio ritorna spesso, in ambedue i volumi (soprattutto nel secondo) è quello tra idee e istituzioni (e tra politica e diritto, in parte coincidente).
Scrive lo studioso lariano: “Ogni apparato ideologico è correlato a un sistema istituzionale, risulta perciò impossibile studiare delle istituzioni prescindendo completamente dalle ideologie che le hanno prodotte… Con le discipline giuridiche la politica intrattiene gli stessi rapporti che vi sono con le istituzioni, dato che il diritto è una sequela di procedure convenute; non è anzi eccessivo affermare che sarebbe impossibile pensare il diritto come qualcosa di autonomo, al di fuori della politica e delle istituzioni a cui attende. In altri termini, il diritto non è altro che un’ideologia tradotta in sistema, per cui ogni istituto è, più o meno direttamente, ascrivibile a una dottrina politica (o più di una)”.
Nell’introduzione al secondo volume il curatore Alessandro Vitale sottolinea che l’errore più grave nel leggere le lezioni “sarebbe però quello di considerarle espressione di semplice o addirittura eccessiva ‘eccentricità’. Questa visione facile e distorta impedirebbe, infatti, di cogliere la coerente e irriducibile ‘classicità’ del percorso di Miglio nello studio della politica. Quella che appare come originalità individuale, magari eccentrica e certamente isolata, è in realtà la coerente prosecuzione di un lungo percorso di riflessione sulla dimensione del ‘politico’ e sulle sue ‘regolarità’, passato attraverso il filtro di numerose discipline e la lezione dei più grandi teorici di tutti i tempi… nonché attraverso l’opera dei maggiori political scientists, che da un metodo prescientifico (dalle origini dei Mosca, Pareto, Michels) sono passati a quello rigoroso dei Weber e degli Schmitt”. Così l’inclusione della parte iniziale (i primi tre capitoli), anche se in taluni tratti si possa ritenerla un po’ ridondante “rimane tuttavia significativa, in quanto rispecchia la sua insofferenza per una cultura, come quella italiana, a lungo rimasta retorica, idealistica e poco empirica. Egli, in particolare, mal sopportava la crescente perdita di rigore e l’irrazionalismo tipico di epistemologie relativiste, che hanno sempre ritenuto equivalenti e intercambiabili tutte le opinioni configgenti nello studio della politica”.
I due volumi sono così densi di giudizi e considerazioni originali che considerarli tutti farebbe di questa recensione un piccolo trattato. Perciò ci limitiamo a due tra i più significativi e ricorrenti (anche in altre opere di Miglio).
La prima è la funzione – carattere principale che lo studioso lariano considera (compito) della scienza politica, cioè la scoperta e analisi delle “regolarità”, “costanti”, “invarianti” (termine quest’ultimo che si può trarre da altri campi e da altri studiosi) della politica.
Come scrive Miglio “Il processo conoscitivo è un processo sempre volto alla ricerca di regolarità. Non c’è conoscenza se non di fenomeni ripetibili. Soltanto con il confronto è possibile entrare nel reale, che di per sé rimane neutro, non risponde, non ha significato: attribuiamo semplicemente significati al mondo reale, distinguendo”, di fronte a un fenomeno che appare nuovo, “all’analisi accurata si rivelerà come qualcosa che era già conosciuta e che si è presentata soltanto in una combinazione differente”. Ci sono regolarità che hanno, almeno nella nostra cognizione ed esperienza, carattere universale; onde è facile prevedere che, in una situazione futura, continueranno a ripresentarsi, anche al di là delle intenzioni e aspirazioni degli attori del processo storico.
Ad esempio il marxismo; questo negava, nello stadio finale (da raggiungere) della società senza classi, due delle regolarità della politica (nel caso anche “presupposti del politico” di Julien Freund): ossia quella della classe politica (in altra prospettiva del comando/obbedienza), cioè dello Stato (l’ente politico) come apparato di governo di pochi su molti; e quella dell’amico-nemico, perché la società senza classi sarebbe stata pacifica, essendone la struttura economica “irenogenetica”. Abbiamo visto com’è andata: la società senza classi non s’è mai vista, neanche all’orizzonte, perché non si poteva realizzare (era contraria alle due “regolarità”); il socialismo reale si è fermato alla (fase della) dittatura del proletariato perché questo non negava (anzi potenziava) le regolarità suddette, essendo una dittatura (di un partito rivoluzionario, cioè di pochi) finalizzata alla guerra contro il nemico (di classe).
Miglio tiene ben presente l’epistemologia di Popper “Lo scienziato ha a che fare con previsioni probabilistiche. Ciò che assumiamo come certezza ha soltanto un elevato grado di probabilità e in un senso tutto operativo, perché adoperiamo come leggi certe, come ipotesi di regolarità certe, quelle che non sono ancora state falsificate. Quanto più a lungo una proposizione di questo tipo resiste alla falsificazione, tanto più possiamo fondarci su di essa: ma questa è sempre e soltanto altamente probabile”. Le regolarità - non falsificate, ma falsificabili – costituiscono poi la base della prevedibilità delle attività politiche.
L’altro è il rapporto tra politica e diritto.
Per Miglio lo Stato moderno è essenzialmente (e prevalentemente) un prodotto del diritto come contratto – scambio; e tutto il diritto è procedura. Il diritto pubblico ha qualcosa di “equivoco”. Adoperando il concetto d’istituzione “arriviamo a una conclusione solo apparentemente paradossale: quello che chiamiamo «Stato (moderno)», essendo un complesso di procedure convenute, di ordinamenti giuridici, non è politica. Si capisce allora perché lo Stato e la politica tendono ad andare per la loro strada”.
Per cui occorre districare “l’intreccio tra politica e diritto e distinguere fra quello che nello Stato è ormai diventato soltanto diritto (e quindi solo “contratto-scambio”) da ciò che invece perennemente sfugge a questa istituzionalizzazione, ossia la politica, generata e legata a un rapporto che non è di “contratto”, che non produce diritto, come quello relativo all’obbligazione politica”; l’analisi del problema delle istituzioni “ci ha condotto non solo a chiarire un problema tecnico molto rilevante, ma anche ad avere ennesima conferma della validità dell’ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse, che distingue radicalmente l’obbligazione politica dall’obbligazione-contratto”.
Il dualismo di Miglio è diverso e radicale: dove c’è obbligazione politica non c’è contratto-scambio: la commistione di queste negli ordinamenti (concreti) non può confondere le differenze. Si può concordare su questo (cioè sulla distinzione dei concetti) con Miglio, ma comunque la commistione c’è.
Tale posizione è così in contrasto con quanto scritto (anche) dai teorici dell’istituzionalismo giuridico (e non solo da loro), d’altra parte apprezzati da Miglio, come Maurice Hauriou e Santi Romano.
Posizione tradizionale nella dottrina giuridica, atteso che risale alla distinzione di Ulpiano “Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem”, D I, De Iustitia et jure, I. Il fundamentum distinctionis più rilevante tra diritto pubblico e diritto privato è condensato da Jellinek – e ripetuto prima e dopo di lui da altri (tanti), che il diritto privato regola i rapporti di coordinazione tra individui, quello pubblico di subordinazione. Nel pensiero di Hauriou la distinzione tra “diritto disciplinare” e “diritto comune” richiama da vicino la distinzione di Max Weber tra ordinamento amministrativo e ordinamento regolativo. Ma quello che è più importante è che, in concreto, il diritto pubblico esiste perché esistono dei rapporti che, anche se fondati sull’obbligo politico (il rapporto comando/obbedienza) costituiscono situazioni giuridiche nei rapporti tra poteri pubblici e tra questi e i cittadini dove è tutto un pullulare di diritti, obblighi, potestà, interessi legittimi interdipendenti. Anche se (molti) di quei rapporti intercorrono tra soggetti non in situazione di parità (ad esempio interessi legittimi/potestà) ciò non toglie che non siano giuridici e che non vi sia (quasi sempre) un giudice per dirimere le liti e statuire su tali diritti.
Rimane quindi una differenza profonda tra diritto pubblico e privato, conseguenza dei principi del Rechtstaat che, necessariamente, impongono una “giuridificazione” o “giustizializzazione” anche se non totale, al potere politico, (uno Stato dove non c’è qualcosa di assoluto – scriveva de Bonald – non s’è mai visto) e in particolare al rapporto di comando-obbedienza.
Nel complesso i due volumi, anche grazie alla chiarezza espositiva dello studioso lariano, costituiscono una lettura agevole e stimolante. E soprattutto portano una ventata di aria fresca in discipline spesso aggravate da un buonismo precettivo (i famosi “paternostri”) e anche da una certa ripetitività conformista. E queste, da sole, sono ragioni più che valide per leggerli e studiarli.
 
 
Gianfranco Miglio
Lezioni di politica - (Volume primo Storia delle dottrine politiche) - (Volume secondo Scienza della politica), Bologna 2011, Ed. Il Mulino, pp. 346 € 27,00 (I° Volume); pp. 512 € 33,00 (II° Volume).
 

http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=17424

mardi, 30 octobre 2012

Quotation of James Burnham

James_Burnham2.jpg"Modern liberalism does not offer ordinary men compelling motives for personal suffering, sacrifice and death. There is no tragic dimension in its picture of the good life. Men become willing to endure, sacrifice and die for God, family, king, honor, country, from a sense of absolute duty or an exalted vision of the meaning of history. It is such traditional ideas and the institutions slowly built around them that are in present fact the great bulwarks, spiritual as well as social, against the tidal advance of the world communist enterprise. And it precisely these ideal and institutions that liberalism has criticized, attacked and in part overthrown as superstitious, archaic, reactionary and irrational. In their place liberalism proposes a set of pale and bloodless abstractions — pale and bloodless for the very reason that they have no roots in the past, in deep feeling and in suffering. Except for mercenaries, saints and neurotics, no one is willing to sacrifice and die for progressive education, medicare, humanity in the abstract, the United Nations and a ten percent rise in Social Security payments."

— James Burnham, Suicide of the West : An Essay on the Meaning and Destiny of Liberalism

lundi, 29 octobre 2012

Quotation of Susan Sontag

 

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It is generally thought that National Socialism stands only for brutishness and terror. But this is not true. National Socialism—more broadly, fascism—also stands for an ideal or rather ideals that are persistent today under the other banners: the ideal of life as art, the cult of beauty, the fetishism of courage, the dissolution of alienation in ecstatic feelings of community; the repudiation of the intellect; the family of man (under the parenthood of leaders). These ideals are vivid and moving to many people, and it is dishonest as well as tautological to say that one is affected by Triumph of the Will and Olympia only because they were made by a filmmaker of genius. Riefenstahl’s films are still effective because, among other reasons, their longings are still felt, because their content is a romantic ideal to which many continue to be attached…

— Susan Sontag, “Fascinating Fascism”
 
http://sexorcismo.tumblr.com/post/33159923183/it-is-generally-thought-that-national-socialism
 

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mercredi, 24 octobre 2012

Un testo inedito di Mariantoni

Un testo inedito di Mariantoni: il perché delle continue sconfitte dei cosiddetti movimenti “Antagonisti”

 
 
Il testo che pubblico questa mattina è un breve saggio pedagogico, "esclusivamente scritto per B. e F", con l'invito esplicito dell'autore "a non mettere in circolazione, per nessun motivo" e la avvertenza, "serve soltanto per la vostra preparazione personale". In morte del maestro, uno dei destinatari della "lezione privata" si è sentito svincolato dalle istruzioni d'uso e me l'ha trasmesso con la preghiera di divulgarlo, in memoria dell'autore. 

 

di Alberto B. Mariantoni

 

Il principale dramma societario del nostro tempo, è che – di fronte ad un sistema politico, economico, sociale e culturale, ormai completamente antiquato, fatiscente ed inoperante (un sistema, cioè, che - non solo, non è più in grado di modificarsi o di rinnovarsi per tentare, in qualche modo, di sopravvivere, ma - non è nemmeno in condizione di scomparire autonomamente… ) – le innumerevoli e variegate forze antagoniste che ufficialmente esistono all’interno delle nostre società e pretendono combattere il sistema che le opprime, non rappresentano, in definitiva, nessuna possibile o probabile alternativa.

Non la rappresentano, in quanto sono assolutamente incapaci di abbozzare una qualsiasi intesa strategica o un qualunque modus operandi tra di loro, per facilitare o favorire l’indispensabile trapasso del vecchio sistemae tentare di collaborare (oppure – dopo averlo spazzato via – competere o rivaleggiare tra di loro, per contribuire) all’urgente, imprescindibile e doverosa edificazione o realizzazione del nuovo.

Il perché di quella loro congenita incapacità, è da ricercarsi – in massima parte – nell’assurdo ed anacronisticoancoraggio ideologico, dottrinario e politico che queste ultime continuano a volere necessariamente mantenere con le mitologie, le tradizioni, gli schemi e la prassi dei secoli precedenti.

Basti pensare, ad esempio, che le suddette forze (come d’altronde quelle che, direttamente o indirettamente, contribuiscono a mantenere artificialmente in vita l’attuale sistema) – per essere politicamente in condizione di distinguersi, definirsi e/o rivaleggiare tra di loro – utilizzano, ancora oggi, dei parametri di identificazione, catalogazione e classificazione che risalgono al 28 Agosto del 1789: il giorno in cui, cioè, nella sala dellaPalla Corda della reggia di Versailles, i deputati dell’allora Assemblea Costituente francese, per meglio facilitare il conteggio dei loro voti (a favore o contro del diritto di veto che Luigi XVIº avrebbe voluto mantenere nel contesto di quel consesso), decisero rispettivamente di schierarsi alla sinistra ed alla destra del tavolo della Presidenza!

Non parliamo, poi, della “palla al piede” ideologica (anacronistico e condizionante retaggio di all’incirca 1700 anni di colonizzazione culturale) che ognuna di quelle forze continua illogicamente e penosamente a trascinarsi dietro… nella speranza – chissà? – di giungere più facilmente e speditamente al traguardo!

Non mi riferisco, naturalmente, all’Ideologia in senso tradizionale (quel corpus culturale, cioè, che tenta di giustificare post eventum quanto una qualsiasi Societas è già stata in grado di edificare o di realizzare), ma piuttosto a quelle “Ideologie” che – a partire da soggettive ed arbitrarie “costruzioni intellettuali” e/o daschemi (religiosi, politici, economici, sociali, culturali, ecc.) preconcetti, dogmatici e statici – non solo ribaltano diametralmente i termini dell’equazione umana e dell’assetto naturale del mondo, ma pretendono intervenire ed agire sulla realtà, suggerendo e/o imponendo una visione delle cose che lascia direttamente o indirettamente credere all’uomo della strada che il reale delle sue naturali percezioni, è sempre e comunqueirreale, e che l’irreale o l’immaginario di quelle soggettive ed arbitrarie descrizioni o costruzioni intellettuali, è la vera realtà.

Conosciamo il limite di quel genere di “Ideologie”…

Le costruzioni intellettuali e/o le rappresentazioni della realtà - che per natura sono sempre riduttive e limitative del reale - pretendono sistematicamente “descrivere”, “imbrigliare”, oppure “determinare”, “modificare”, “sconvolgere” e, qualche volta, perfino “predire”, “prevedere” o “precorrere” la realtà.

Nonostante gli sforzi, però, la realtà, come sappiamo, non si lascia mai interamente descrivere, né tanto menoimbrigliare; meno ancora determinare, sconvolgere o prevedere! E se anche qualcuno di noi, per pura ipotesi, riuscisse davvero a farlo, un miliardesimo di secondo dopo, ci accorgeremmo che la realtà che abbiamo preteso individuare, focalizzare e circoscrivere non corrisponde più alla descrizione o alla rappresentazione che avevamo creduto di avere realizzato.
Panta rei… (tutto scorre) e, “mai lo stesso uomo - ammoniva Eraclito di Efeso –(544/-484) - può bagnarsi nella stessa acqua”…
Una semplice foglia che cade da un albero; un uccello che sfreccia nel cielo; un bruco che ingurgita un briciolo di gelso; un essere che nasce o uno che muore... E la realtà che ci circonda, non corrisponde più alla “realtà” che un attimo prima abbiamo avuto la pretesa di fissare o di immortalare all’interno della nostra costruzione o della nostra rappresentazione.
Una volta espressa e formulata, inoltre, anche la più allettante, fascinosa, razionale, plausibile e credibile dellecostruzioni intellettuali, non può essere nient’altro che un’ingannevole e statica “istantanea” di un esclusivo e particolare momento della realtà: una “foto polaroid”, insomma, all’interno della quale, quel nostro particolare scorcio del presente, già invecchiato dal trascorrere dei secondi, tenta invano di dare delle risposte alle eventuali problematiche dell’avvenire, utilizzando delle chiavi di lettura che, in pratica, sono già svilite o superate dalla Storia e, di conseguenza, completamente illusorie ed inefficienti, sia dal punto di vista del loro possibile impatto sulla realtà che da quello della loro effettiva e concreta capacità di intervento.
Non dimentichiamo, oltre a ciò, che in qualunque costruzione intellettuale, il reale o l’irreale della nostra percezione di ieri, resta cristallizzato, per sempre, all’interno di quella nostra descrizione.
Sarebbe, quindi, un vano esercizio ed una fallace presunzione accademica pretendere di poterlo trasporre o proiettare nel tempo e nello spazio, per farlo, in qualche modo, intervenire dinamicamente e positivamente sugli avvenimenti o sulle circostanze dell’oggi o del domani.
Come è facile dedurlo, in fine, per una visione strettamente “ideologica” della realtà, il domani è sempre e comunque ieri. Dopodomani, è ancora ieri. E dopodomani l’altro, immutabilmente ed inalterabilmente ieri: unoieri virtuale, cioè, che non solo contribuisce a deformare costantemente la nostra percezione dell’oggi e del domani, ed a falsarne sistematicamente le basi di analisi e di giudizio, ma tende soprattutto a suscitare e ad intrattenere, nella nostra psiche, ogni sorta di inutili speranze d’avvenire (ogni volta, vanamente attese ed inutilmente rincorse…), in quanto queste ultime sono incessantemente agognate o concupite con l’occhio immobile ed inespressivo di un passato, mummificato ed inoperante, che in tutti i casi non “macina” più, né potrebbe, d’altronde, essere più in grado di “macinare”…
Per individuare e capire l’altro motivo di fondo, a causa del quale le suddette forze antagoniste non riescono ad unirsi ed a concentrare i loro sforzi su un obbiettivo comune, è sufficiente analizzare la principale conseguenza che deriva dall’adozione, per per i dirigenti ed i loro militanti, di qualsivoglia tipo di costruzione intellettuale e/o di rappresentazione della realtà.
Come sappiamo, infatti, qualsiasi costruzione intellettuale e/o rappresentazione della realtà essendo, allo stesso tempo, un input ed uno stimulus (quindi, una spinta/molla/motivazione ideale ed uno stimolo pratico), ha tendenza a sollecitare l’immaginario e/o la riflessione intellettuale e/o la sensibilità spirituale e/o la ricettività/reattività emotiva di ciascuno ed a suscitare – in coloro che vi si sentono attratti e/o sedotti – l’ambizione, il desiderio e/o il bisogno/necessità di aggregarsi e di riunirsi (ipoteticamente e/o concretamente) all’interno o nel contesto di una factio, factionis, un pars, partis o una secta, ae (cioè, una fazione, un partito o una setta): quel particolare “modello associativo extra-tradizionale” che Friedrich Georg Jünger (1898–1977), nel suo Der Aufmarsch des Nationalismus (1926), designa e qualifica con il nome di Geistgemeinschaft o “Comunità della mente”.
Una Geistgemeinschaft, infatti, è semplicemente una “Comunità ideologica”.
Che cos’è una “Comunità ideologica”?
E’ un modello di società che non ha nulla a che fare o a che vedere con quello di Blutgemeinschaft (Comunità del sangue), ugualmente evocato da Jünger, né con quelli, similmente tradizionali, di Volksgemeinschaft (Comunità di popolo) e/o di Schicksalsgemeinschaft (Comunità di destino).
Inoltre, come il nome stesso lo indica, una “Comunità ideologica” è un modello di ordine/assetto societario che – indipendentemente dalla lingua, la cultura, l’origine etnico-storica, i costumi e le tradizioni particolari dei suoi possibili o probabili affiliati – tende preminentemente a scaturire ed a realizzarsi/concretizzarsi, prendendo direttamente o indirettamente spunto, ispirazione, impulso e/o giustificazione dai contenuti ideologici e/o dallematrici concettuali che emergono o si sprigionano da una costruzione intellettuale.
Una “Comunità ideologica”, in fine – in aperta rottura, opposizione e contraddizione con i vari modelli di Innata Societas esistenti o esistiti – tende caratteristicamente ad organizzarsi e ad operare sotto forma di Simulata Societas.
Che cos’è una Innata Societas?

E’ un ‘modello di società’ che – con tutte le sue possibili ed immaginabili varianti politiche, economiche, sociali e culturali interne – tende naturalmente e spontaneamente a costituirsi e ad organizzarsi, senza l’ausilio di nessun artificio o, se si preferisce, di nessuna costruzione o elaborazione intellettuale, né di nessuna finzione ideologica, politica, giuridica o amministrativa.
Che cos’è una Simulata Societas?
E’ un’imitazione o un succedaneo di Societas naturale: un “sodalizio”, cioè, che cerca di riprodurre o di mimare (oppure, di riformare, migliorare, oltrepassare o sopravanzare) la “società naturale” o “tradizionale”. Un genere di società, insomma, che – per capire il senso che io gli sto dando – può senz’altro essere paragonato ad un “gruppo umano supra-nationale” o ad un “Partito” o ad una “Setta” o ad una “Congregazione” o ad una “Confraternita”.
Quella che io chiamo Simulata Societas, infatti – per potersi realmente costituire ed organizzare; essere in condizione di esistere, di agire o di operare; e, quindi, di durare nel tempo – ha necessariamente bisogno di tutta una serie di costruzioni o di elaborazioni intellettuali, di finzioni ideologiche e di artifizi politici,sociali e culturali che non hanno (anche quando, esteriormente e apparentemente, riescono ad imitare leSocietà tradizionali…) nessuna correlazione, né attinenza, con i motivi naturali e spontanei di aggregazione umana e di coesione civile e politica che invece caratterizzano le autentiche ‘società naturali’ o, se si preferisce, quelli che io chiamo gli originari ed inossidabili modelli di Innata Societas.
Come si forma o si costituisce una Simulata Societas?
Si forma o si costituisce, a partire dall’immagine soggettiva ed arbitraria che ogni singolo affiliato riesce personalmente a costruirsi, forgiarsi o elaborarsi nella sua psiche e/o nel suo animo, a proposito di un certo numero di punti fermi o di principi conduttori che ordinariamente costituiscono la base logica e/o il fondamento ideale dell’iniziale costruzione intellettuale e/o rappresentazione della realtà a cui si fa riferimento.
Per quale ragione, dunque, non c’è, né può mai esserci unità d’intenti, né all’interno, né all’esterno, di una qualsiasi “Comunità ideologica”? Tanto meno, tra “Comunità ideologiche” contrapposte? Meno ancora, tra “Comunità ideologiche” affini?
Per la semplice ragione che i fautori o i propugnatori di Geistgemeinschaft o “Comunità della mente” hanno solitamente tendenza a credere che l’intera umanità possa essere riconducibile ad un unico “modello ideale” di uomo e/o di società: quello stesso “modello”, cioè, che ognuno di loro – senza volerlo e senza saperlo (e probabilmente, senza nemmeno accorgersene!) – si è individualmente ed autonomamente costruito o strutturato nel suo cervello e/o nel suo cuore, a partire (come abbiamo visto…) dalla frazione di immagine, soggettiva ed arbitraria, che è riuscito a focalizzare, estrapolare ed assimilare dal “modello ideale” che è ordinariamente espresso o riassunto dai termini (ugualmente soggettivi ed arbitrari) della costruzione intellettuale che lo descrive, lo presenta o lo lascia intuire.
Quel “modello”, se vogliamo, può al massimo corrispondere alle tendenze, preferenze e/o predisposizioni di chi se lo è soggettivamente costruito o strutturato, e trovare esclusivamente riscontro presso coloro che sono stati illusoriamente persuasi o si sono intellettualmente e/o spiritualmente e/o emotivamente auto-convinti di potervi in qualche modo coincidere, collimare o concordare.
Essendo, però, ottenebrati e fuorviati da quella loro paradossale convinzione (Il fatto, cioè, di essere persuasi che l’intera umanità possa essere riconducibile ad un unico “modello ideale” di uomo e/o di società…), i suddetti fautori o propugnatori sono costantemente ed erroneamente portati a credere che sia più facile, opportuno e/o fecondo – per tentare di “salvare il mondo” o, semplicemente, per cercare di poterlo “cambiare” o “modificare”… – di associarsi unicamente (ciò che, in definitiva, è soltanto una grossolana e flagrante contraddizione in termini!) con i loro “uguali” o con delle persone che ufficialmente affermano di avere le loro “stesse convinzioni” o formalmente pretendono “pensarla allo stesso modo”.
Ora, siccome ogni essere umano è, e resta, unico, originale ed irripetibile – e per giunta quot homines, tot sententiae (tanti uomini, altrettante opinioni) – diventa praticamente inevitabile che all’interno di quelle particolari Comunitas – anche sforzandosi o facendo finta di credere che i possibili o prevedibili adepti della medesima concezione/ interpretazione/ rappresentazione possano realmente pensarla allo stesso modo – un’effettiva e concreta concordanza di opinioni, è quasi sempre improbabile o, quanto meno, estremamente difficile da ottenere o da realizzare.
Non tenendo in considerazione il fatto che ogni uomo è unico, originale ed irripetibile – quindi, potenzialmente complementare – i responsabili delle diverse e variegate forze antagoniste che esistono all’interno delle nostre società, pretendono puerilmente omologare il pensiero e l’azione dell’insieme dei loro adepti, forzandoli ad identificarsi al “modello” personale che essi stessi si sono soggettivamente ed arbitrariamente forgiato o strutturato.
Risultato: chi non la pensa ed agisce esattamente come il “Capo” e/o i suoi “tirapiedi”, è il nemico da avversare e da combattere. Quindi, in definitiva, da marginalizzare o da espellere. Insomma: da eliminare.
Inoltre, tenuto conto del fatto che nessuno al mondo, a causa dell’anzidetta peculiarità umana (il fatto, cioè, che ogni uomo è unico, originale ed irripetibile), può realmente ergersi a modello ideologico per altri suoi simili, né tanto meno riuscire effettivamente a coincidere, collimare o concordare con nessun tipo di “modello ideologico”, meno ancora arrivare intellettualmente e/o spiritualmente e/o emotivamente a corrispondere o a rassomigliare ad altri essere umani, il rapporto quotidiano tra correligionari di una medesima “Comunità ideologica” si riduce quasi sempre ad essere un’ipocrita e/o psico-drammatica relazione di illusoria o simulata collaborazione o cooperazione. E nel migliore dei casi: una continua, costante e snervante guerra di logoramento o un “muro contro muro” di rapporti di forza tra membri maggioritari e minoritari di una medesima, invivibile ed insostenibile conventio ad excludendum.
Che cos’è una conventio ad excludendum?
Letteralmente: è un’assemblea, un’adunanza o un raduno per escludere.

E’ un concetto di società, cioè, che è diametralmente antitetico e contrapposto a quello espresso o manifestato da qualsiasi genere di società tradizionale o Innata Societas, dove la tendenza è piuttosto alla conventio ad consociandum (assemblea, adunanza o raduno per consociare o riunire) o addirittura alla coniunctio oppositorum o alla coincidentia oppositorum (convergenza degli opposti o unione dei contrari; qualcosa, cioè, che mette in risalto la complementarità di ognuno). Qualcosa, cioè, che, per estensione, tende al “superamento degli opposti”, così come aveva fatto notare Nicolas de Cues o Nikolaus Krebs (1401-1464) e largamente approfondito e dimostrato, in seguito, Mircea Éliade (principalmente in: Méphistophélès et l'androgyne, Collection "Idées", No. 435, Gallimard, Paris, 1962).
E’ la ragione per la quale, i responsabili di “Comunità ideologiche” (nel nostro caso: i vari “capi” e “capetti”, “duci” e “ducetti” delle innumerevoli e variegate forze antagoniste che ufficialmente esistono all’interno delle nostre società) – per cercare di evitare, attenuare o contenere il continuo e costante frazionamento e/o l’ineluttabile atomizzazione/scomposizione centrifuga dei loro ranghi – tendono prioritariamente a concentrare l’attenzione dei loro affiliati sugli eventuali nemici interni o esterni (reali o immaginari) che potrebbero minacciare o rimettere in discussione le presupposte credenze comuni e/o la congetturata unità del gruppo.Ed invece di facilitare o di favorire un franco e spassionato dibattito sulle reali problematiche che affliggono le nostre società e trovare tutti insieme le più consone o adeguate soluzioni, preferiscono essenzialmente mettere l’accento su una serie di standard di identificazione esterna (un certo tipo di camicia, un certo tipo di saluto, di distintivo, di bandiera, ecc.) che – resi indispensabili ed imprescindibili – tendono a sostituire o a rimpiazzare quei legami naturali che, in linea di massima, gli ordinari adepti o membri di Geistgemeinschaft o “Comunità della mente” non posseggono, né sono o saranno mai in grado di auto-costituirsi o di auto-strutturarsi.
 

Rébellion 55 !

 Rébellion 55 !

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SOMMAIRE

 
ÉDITORIAL
Hollande trouve son chemin de Damas.

ACTUALITES
La gauche contre le peuple.
Charles Robin démonte l'idéologie libérale.

DOSSIER
BALKANS. L'EUROPE MEURTRIE
La guerre contre la Serbie.
Laboratoire des "guerres humanitaires".
En première ligne au kosovo.
Entretien avec Slobodan Despot.
Balkans. L'éclatement programmé de
Alexis-Gilles Troude.

IDEES
L'encaillement des Clercs. Réflexion sur les
travaux de François de Négroni.
Jacob Burckhardt et la communauté locale des citoyens.

CULTURE
Child of the black Sun.
Entretien avec Boyd Rice.

Chronique
Le début de la fin & Autres
Causeries crépusculaires. Eric Werner.
Vogelsang ou la mélancolie du vampire
Christopher Gérard.
 
Le numéro est disponible contre 4 euros ( port compris)
à notre adresse :
Rébellion - RSE BP 62124 31020 TOULOUSE cedex 02

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mardi, 23 octobre 2012

Dugin Gets in the Ring

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Dugin Gets in the Ring

Whither the Fourth Political Theory?

 
 
The Fourth Political Theory
 
 
 
is a book that is clearly not short on ambition. I haven’t actually read it, but I already know more or less what is in it from past writings by its author Professor Alexander Dugin, as well as the lengthy video presentation he gave of his ideas at the Identitarian Ideas conference held earlier this year in Stockholm.
 

Dugin believes there have been three great ideologies in modern history – Liberalism, Communism, and Fascism/National Socialism – and that we are now seeing the formation of the Fourth, which is still waiting to be properly christened and so is known by an ordinal. In the footsteps of Locke, Marx, and Mussolini, we now have Dugin.

I greatly respect and like Dugin. With his Tolstoyan beard and aura of an old church father, he’s a personable and reassuring presence. But I also know how the academic world works, and how it finds all sorts of clever ways to serve different masters, and Professor Dugin is certainly well-connected to a lot of people in the Russian establishment. Is it a coincidence that his ideas support the existence of the Russian Orthodox Church or the multi-ethnic imperialism that is the unavoidable basis for a strong Russian state?

But onto the Fourth Political Theory, with its Millenialist feel of being the fourth and final horseman of the ideological apocalypse. OK, the Theory straps a cushion to its forehead by claiming to be a work in progress, so that any blows landed on it will be softened, but already much of the groundwork has been clearly laid. The road isn’t finished, but we can more or less see where it is headed under the guidance of Professor Dugin.

The Theory supposedly arises from the criticism and deconstruction of the previous three theories, which history has already revealed to be full of flaws and responsible for a great deal of suffering and confusion. Dugin seems happy enough to ride along with modern Liberalism’s historical demolition of Marxism and Fascism, as this makes it a tidy knuckle-to-knuckle, winner-takes-all match between his Fourth Theory and the still undefeated champion, Liberalism.

Seconds out – Ding! Ding! Ding!

dugin-fpt.jpgDespite past attempts by the Second and Third Theories to claim the crown of modernity, Dugin believes that Liberalism has triumphed here and has managed to irrevocably present itself as the only truly “modern” way. It has also succeeded in presenting itself as the “natural order,” rather than a mere ideology.

To destroy Liberalism, Dugin strikes as these points. But rather than trying to claim that the Fourth Theory is more modern than Liberalism, his strategy is to try to get away from the whole idea of modernity itself by appealing to pre-modern values and conceptualizing them as post-modern eternal values. There is more than a touch of his Old Believer Russian Orthodoxy here.

This is not so much a heavy punch to the ribs of Liberalism as a bit of fancy footwork to avoid Liberalism’s nasty left hook. Modernity is not so easily discarded, as Dugin seems to believe. It operates as the measure of ideological victory, without which no battle can take place. His call to discard modernity is therefore a call for a defensive ceasefire or a time out.

Another key point for Dugin to attack is the subjects or agents of the other three theories. The economic classes of Marxism are presented as outmoded; Fascism’s state as something of a bourgeois innovation; and National Socialist race as a “kind of construction” and not very useful.

Although his punches are only glancing ones here, it does not matter, as these two systems are supposedly punch-drunk losers propping up the bar, muttering “I coulda been a contender.” Where Dugin is more effective is in battering Liberalism’s all-important individual.

This is his mighty opponent’s soft spot and Dugin makes hay here and even gets into position to unleash his KO, but this is where his attack comes unstuck. While all the previous systems have strong subjects/agents that human beings can all feel passionate about – race, nation, class, and our own beloved selves – the Fourth Theory substitutes Heidegger’s flat-footed and abstruse “Dasein” concept. You couldn’t imagine the Bastille being stormed or Stalingrad being held for the sheer pleasure of “being there”!

As a philosophical phrase that says very little by saying too much, it is appropriate that it is then extrapolated into a kind of blanket multi-polarity and call for a true multiculturalism (depoliticized in the case of Russia) and even multi-chronology. Regarding this latter concept, Dugin calls for a world where societies can exist that operate on different temporal patterns, such as cyclical, linear, or more complex. He also calls for the rejection of universal values and comparisons. This is clearly heavily defensive boxing, aimed at avoiding the clever jabs and looming thump that Liberalism is aiming at Putin’s Russia.

The Ascendant Order

Dugin’s interpretation of the previous three theories has a kind of grace, regularity, and ascendant pattern to it. There is natural and elegant progression from the individual to class, and from class to the state (or race). While the other three ideologies nobly struggled in the ring of modernity, and had subjects/agents that could inspire the masses, the Fourth Political Theory has a snatch of Heidegger embroidered on its boxing shorts and seems to be climbing through the ropes with its towel flying through the air behind it.

Perhaps the problem is ideology itself. While Dugin is happy to abandon notions of modernity, he is less happy to abandon ideology. This is only to be expected from an academic who eats, sleeps, and breathes ideology. So, do we actually need it?

Ideology has a progressive nature that does not endear it to many on the Right, but progress is essential in any system that is not based on pure stagnation. Even a cyclical system needs progress to get to the point of its collapse and rebirth. Ideology creates progress through competing with the status quo, or by helping a rising system to become manifest. Therefore, in addition to each ideology having a subject or an agent, history also demonstrates that it needs some kind of enemy or rival: Liberalism’s enemy was the old order; Marxism’s was Liberalism; Fascism’s was Marxism; and Neo-Liberalism’s was Fascism and Marxism.

The problem of the Neo-Liberal world order is that there seems no longer to be any enemy, thus endless stagnation looms. Progress will only arise when Neo-Liberalism in its turn becomes the defeated enemy. On this basis, a strong case exists for the necessity of a Fourth Ideology. But after this, will we need a fifth or sixth, and so on into infinity? The chances are that our technologically enhanced world cannot handle this kind of vast, intense dialectical struggle many times more, so it is essential that the Fourth Political Theory should internalize the engine of progress that has previously come from ideological conflict.

Escaping the Dialectical

As it now stands, the Fourth Political Theory is more a reflection of Russo-centric concerns, and also seems inconsistent with the broader ideological framework that Dugin has outlined. In order for it to gain wider credibility it will have to take on board some of the following points:

Firstly, it should be entirely divorced from any agenda that reflects specific political or religious goals or interests, such as those elements of Russian political pragmatism I constantly detect in Dugin’s work.

Secondly, modernity should not be abandoned. If we are to have an ideological battle, we need winners and losers, and we need a common standard by which to judge them. Communism understood this and so did Fascism, and both were ahead of Liberalism on points for most of their bouts. “Da Sein” and multi-chronology is a form of retreatism.

Thirdly, dismissing Communism and Fascism is premature. Although both were defeated, neither was a purely ideological defeat. Fascism’s defeat was mainly military, while Communism’s was economic. To use boxing terminology one last time, you could say that both were lucky knock outs. These two contestants should be readmitted to the ideological battle until they are defeated ideologically. Neo-liberalism is not capable of doing this. Only a later political theory will be capable of this.

Fourthly, the Fourth Political Theory should be adjusted to fit more neatly into Dugin’s grand pattern of ideological evolution. Only when this is done will it be successful. History shows that Marxism opposed but also used elements of Liberalism. Fascism opposed but also used elements of Marxism and to a lesser extent Liberalism. Therefore it seems likely that the Fourth Political Theory should oppose but also include elements of Fascism and to a lesser extent Marxism.

Fifthly, the Fourth Political Theory needs to find an appropriate subject/agent, one with an existence that the masses can relate to, and one that fits into the ascendant pattern of individual, class, and state/race. The only subject that fits this bill is humanity itself.

Sixthly, to avoid the dangers of endless stagnation and further dialectical struggles resulting in Armageddon, the Fourth Political Theory will need to internalize the progressive impetus.

mardi, 16 octobre 2012

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

2 ans déjà ! 

Le testament de Maurice Allais (1911-2010)

 
Le 9 octobre 2010, il y a deux ans, disparaissait Maurice Allais à l’âge respectable de 99 ans, qui avait tout annoncé…

Maurice AllaisC’était le seul prix Nobel d’économie français. Né le 31 mai 1911, il part aux États-Unis dès sa sortie (major X31) de Polytechnique en 1933 pour étudier in situ la Grande Dépression qui a suivi la Crise de 1929. Ironie de l’histoire, il a ainsi pu réaliser une sorte de “jonction” entre les deux Crises majeures du siècle. Son analyse, percutante et dérangeante, n’a malheureusement pas été entendue faute de relais.

Fervent libéral, économiquement comme politiquement, il s’est férocement élevé contre le néo-conservatisme des années 1980, arguant que le libéralisme ne se confondait pas avec une sortie de “toujours mois d’État, toujours plus d’inégalités” – qui est même finalement la définition de l’anarchisme. On se souviendra de sa dénonciation du “libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée” et de la “chienlit mondialiste laissez-fairiste”. Il aimait à se définir comme un “libéral socialiste” – définition que j’aime beaucoup à titre personnel.

Il a passé les dernières années de sa vie à promouvoir une autre Europe, bien loin de ce qu’il appelait “l’organisation de Bruxelles”, estimant que la construction européenne avait pervertie avec l’entrée de la Grande-Bretagne puis avec l’élargissement à l’Europe de l’Est.

RIP

Lettre aux français : “Contre les tabous indiscutés”

Le 5 décembre 2009, le journal Marianne a publié le testament politique de Maurice Allais, qu’il a souhaité rédiger sous forme d’une Lettre aux Français.

Je vous conseille de le lire, il est assez court et clair. Je le complète par divers autres textes surtout pour les personnes intéressées – même si cela alourdit le billet.

Maurice Allais

Le point de vue que j’exprime est celui d’un théoricien à la fois libéral et socialiste. Les deux notions sont indissociables dans mon esprit, car leur opposition m’apparaît fausse, artificielle. L’idéal socialiste consiste à s’intéresser à l’équité de la redistribution des richesses, tandis que les libéraux véritables se préoccupent de l’efficacité de la production de cette même richesse. Ils constituent à mes yeux deux aspects complémentaires d’une même doctrine. Et c’est précisément à ce titre de libéral que je m’autorise à critiquer les positions répétées des grandes instances internationales en faveur d’un libre-échangisme appliqué aveuglément.

Le fondement de la crise : l’organisation du commerce mondial

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme » , dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années » (1). Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres. Inversement, parmi les multiples vérités qui ne sont pas abordées se trouve le fondement réel de l’actuelle crise : l’organisation du commerce mondial, qu’il faut réformer profondément, et prioritairement à l’autre grande réforme également indispensable que sera celle du système bancaire.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorance de l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas. Particulièrement face à des concurrents indiens ou surtout chinois qui, outre leur très faible prix de main-d’œuvre, sont extrêmement compétents et entreprenants.

Il faut délocaliser Pascal Lamy !

Mon analyse étant que le chômage actuel est dû à cette libéralisation totale du commerce, la voie prise par le G20 m’apparaît par conséquent nuisible. Elle va se révéler un facteur d’aggravation de la situation sociale. À ce titre, elle constitue une sottise majeure, à partir d’un contresens incroyable. Tout comme le fait d’attribuer la crise de 1929 à des causes protectionnistes constitue un contresens historique. Sa véritable origine se trouvait déjà dans le développement inconsidéré du crédit durant les années qui l’ont précédée. Au contraire, les mesures protectionnistes qui ont été prises, mais après l’arrivée de la crise, ont certainement pu contribuer à mieux la contrôler. Comme je l’ai précédemment indiqué, nous faisons face à une ignorance criminelle. Que le directeur général de l’Organisation mondiale du commerce, Pascal Lamy, ait déclaré : « Aujourd’hui, les leaders du G20 ont clairement indiqué ce qu’ils attendent du cycle de Doha : une conclusion en 2010 » et qu’il ait demandé une accélération de ce processus de libéralisation m’apparaît une méprise monumentale, je la qualifierais même de monstrueuse. Les échanges, contrairement à ce que pense Pascal Lamy, ne doivent pas être considérés comme un objectif en soi, ils ne sont qu’un moyen. Cet homme, qui était en poste à Bruxelles auparavant, commissaire européen au Commerce, ne comprend rien, rien, hélas ! Face à de tels entêtements suicidaires, ma proposition est la suivante : il faut de toute urgence délocaliser Pascal Lamy, un des facteurs majeurs de chômage !

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. Depuis plus de dix ans, j’ai proposé de recréer des ensembles régionaux plus homogènes, unissant plusieurs pays lorsque ceux-ci présentent de mêmes conditions de revenus, et de mêmes conditions sociales. Chacune de ces « organisations régionales » serait autorisée à se protéger de manière raisonnable contre les écarts de coûts de production assurant des avantages indus a certains pays concurrents, tout en maintenant simultanément en interne, au sein de sa zone, les conditions d’une saine et réelle concurrence entre ses membres associés.

Un protectionnisme raisonné et raisonnable

Ma position et le système que je préconise ne constitueraient pas une atteinte aux pays en développement. Actuellement, les grandes entreprises les utilisent pour leurs bas coûts, mais elles partiraient si les salaires y augmentaient trop. Ces pays ont intérêt à adopter mon principe et à s’unir à leurs voisins dotés de niveaux de vie semblables, pour développer à leur tour ensemble un marché interne suffisamment vaste pour soutenir leur production, mais suffisamment équilibré aussi pour que la concurrence interne ne repose pas uniquement sur le maintien de salaires bas. Cela pourrait concerner par exemple plusieurs pays de l’est de l’Union européenne, qui ont été intégrés sans réflexion ni délais préalables suffisants, mais aussi ceux d’Afrique ou d’Amérique latine.

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts, comme cela a été le cas dans le secteur des pneumatiques pour automobiles, avec les annonces faites depuis le printemps par Continental et par Michelin. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services.

De ce point de vue, il est vrai que je ne fais pas partie des économistes qui emploient le mot « bulle ». Qu’il y ait des mouvements qui se généralisent, j’en suis d’accord, mais ce terme de « bulle » me semble inapproprié pour décrire le chômage qui résulte des délocalisations. En effet, sa progression revêt un caractère permanent et régulier, depuis maintenant plus de trente ans. L’essentiel du chômage que nous subissons —tout au moins du chômage tel qu’il s’est présenté jusqu’en 2008 — résulte précisément de cette libération inconsidérée du commerce à l’échelle mondiale sans se préoccuper des niveaux de vie. Ce qui se produit est donc autre chose qu’une bulle, mais un phénomène de fond, tout comme l’est la libéralisation des échanges, et la position de Pascal Lamy constitue bien une position sur le fond.

Crise et mondialisation sont liées

Les grands dirigeants mondiaux préfèrent, quant à eux, tout ramener à la monnaie, or elle ne représente qu’une partie des causes du problème. Crise et mondialisation : les deux sont liées. Régler seulement le problème monétaire ne suffirait pas, ne réglerait pas le point essentiel qu’est la libéralisation nocive des échanges internationaux, Le gouvernement attribue les conséquences sociales des délocalisations à des causes monétaires, c’est une erreur folle.

Pour ma part, j’ai combattu les délocalisations dans mes dernières publications (2). On connaît donc un peu mon message. Alors que les fondateurs du marché commun européen à six avaient prévu des délais de plusieurs années avant de libéraliser les échanges avec les nouveaux membres accueillis en 1986, nous avons ensuite, ouvert l’Europe sans aucune précaution et sans laisser de protection extérieure face à la concurrence de pays dotés de coûts salariaux si faibles que s’en défendre devenait illusoire. Certains de nos dirigeants, après cela, viennent s’étonner des conséquences !

Si le lecteur voulait bien reprendre mes analyses du chômage, telles que je les ai publiées dans les deux dernières décennies, il constaterait que les événements que nous vivons y ont été non seulement annoncés mais décrits en détail. Pourtant, ils n’ont bénéficié que d’un écho de plus en plus limité dans la grande presse. Ce silence conduit à s’interroger.

Un prix Nobel… téléspectateur

Les commentateurs économiques que je vois s’exprimer régulièrement à la télévision pour analyser les causes de l’actuelle crise sont fréquemment les mêmes qui y venaient auparavant pour analyser la bonne conjoncture avec une parfaite sérénité. Ils n’avaient pas annoncé l’arrivée de la crise, et ils ne proposent pour la plupart d’entre eux rien de sérieux pour en sortir. Mais on les invite encore. Pour ma part, je n’étais pas convié sur les plateaux de télévision quand j’annonçais, et j’écrivais, il y a plus de dix ans, qu’une crise majeure accompagnée d’un chômage incontrôlé allait bientôt se produire, je fais partie de ceux qui n’ont pas été admis à expliquer aux Français ce que sont les origines réelles de la crise alors qu’ils ont été dépossédés de tout pouvoir réel sur leur propre monnaie, au profit des banquiers. Par le passé, j’ai fait transmettre à certaines émissions économiques auxquelles j’assistais en téléspectateur le message que j’étais disposé à venir parler de ce que sont progressivement devenues les banques actuelles, le rôle véritablement dangereux des traders, et pourquoi certaines vérités ne sont pas dites à leur sujet. Aucune réponse, même négative, n’est venue d’aucune chaîne de télévision et ce durant des années.

Cette attitude répétée soulève un problème concernant les grands médias en France : certains experts y sont autorisés et d’autres, interdits. Bien que je sois un expert internationalement reconnu sur les crises économiques, notamment celles de 1929 ou de 1987, ma situation présente peut donc se résumer de la manière suivante : je suis un téléspectateur. Un prix Nobel… téléspectateur, Je me retrouve face à ce qu’affirment les spécialistes régulièrement invités, quant à eux, sur les plateaux de télévision, tels que certains universitaires ou des analystes financiers qui garantissent bien comprendre ce qui se passe et savoir ce qu’il faut faire. Alors qu’en réalité ils ne comprennent rien. Leur situation rejoint celle que j’avais constatée lorsque je m’étais rendu en 1933 aux États-Unis, avec l’objectif d’étudier la crise qui y sévissait, son chômage et ses sans-abri : il y régnait une incompréhension intellectuelle totale. Aujourd’hui également, ces experts se trompent dans leurs explications. Certains se trompent doublement en ignorant leur ignorance, mais d’autres, qui la connaissent et pourtant la dissimulent, trompent ainsi les Français.

Cette ignorance et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale.

Question clé : quelle est la liberté véritable des grands médias ? Je parle de leur liberté par rapport au monde de la finance tout autant qu’aux sphères de la politique.

Deuxième question : qui détient de la sorte le pouvoir de décider qu’un expert est ou non autorisé à exprimer un libre commentaire dans la presse ?

Dernière question : pourquoi les causes de la crise telles qu’elles sont présentées aux Français par ces personnalités invitées sont-elles souvent le signe d’une profonde incompréhension de la réalité économique ? S’agit-il seulement de leur part d’ignorance ? C’est possible pour un certain nombre d’entre eux, mais pas pour tous. Ceux qui détiennent ce pouvoir de décision nous laissent le choix entre écouter des ignorants ou des trompeurs.

Maurice Allais.

_________________
(1) L’Europe en crise. Que faire ?, éditions Clément Juglar. Paris, 2005.
(2) Notamment La crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999, et la Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance : l’évidence empirique, éditions Clément Juglar, 1999.

NB : vous pouvez télécharger cet article ici.

Maurice Allais

Présentation par Marianne

Le Prix Nobel iconoclaste et bâillonné

La « Lettre aux Français » que le seul et unique prix Nobel d’économie français a rédigée pour Marianne aura-t-elle plus d’écho que ses précédentes interventions ? Il annonce que le chômage va continuer à croître en Europe, aux États-Unis et dans le monde développé. Il dénonce la myopie de la plupart des responsables économiques et politiques sur la crise financière et bancaire qui n’est, selon lui, que le symptôme spectaculaire d’une crise économique plus profonde : la déréglementation de la concurrence sur le marché mondial de la main-d’œuvre. Depuis deux décennies, cet économiste libéral n’a cessé d’alerter les décideurs, et la grande crise, il l’avait clairement annoncée il y a plus de dix ans.

Éternel casse-pieds

Mais qui connaît Maurice Allais, à part ceux qui ont tout fait pour le faire taire ? On savait que la pensée unique n’avait jamais été aussi hégémonique qu’en économie, la gauche elle-même ayant fini par céder à la vulgate néolibérale. On savait le sort qu’elle réserve à ceux qui ne pensent pas en troupeau. Mais, avec le cas Allais, on mesure la capacité d’étouffement d’une élite habitée par cette idéologie, au point d’ostraciser un prix Nobel devenu maudit parce qu’il a toujours été plus soucieux des faits que des cases où il faut savoir se blottir.

« La réalité que l’on peut constater a toujours primé pour moi. Mon existence a été dominée par le désir de comprendre ce qui se passe, en économie comme en physique ». Car Maurice Allais est un physicien venu à l’économie à la vue des effets inouïs de la crise de 1929. Dès sa sortie de Polytechnique, en 1933, il part aux États-Unis. « C’était la misère sociale, mais aussi intellectuelle : personne ne comprenait ce qui était arrivé. » Misère à laquelle est sensible le jeune Allais, qui avait réussi à en sortir grâce à une institutrice qui le poussa aux études : fils d’une vendeuse veuve de guerre, il a, toute sa jeunesse, installé chaque soir un lit pliant pour dormir dans un couloir. Ce voyage américain le décide à se consacrer à l’économie, sans jamais abandonner une carrière parallèle de physicien reconnu pour ses travaux sur la gravitation. Il devient le chef de file de la recherche française en économétrie, spécialiste de l’analyse des marchés, de la dynamique monétaire et du risque financier. Il rédige, pendant la guerre, une théorie de l’économie pure qu’il ne publiera que quarante ans plus lard et qui lui vaudra le prix Nobel d’économie en 1988. Mais les journalistes japonais sont plus nombreux que leurs homologues français à la remise du prix : il est déjà considéré comme un vieux libéral ringardisé par la mode néolibérale.

Car, s’il croit à l’efficacité du marché, c’est à condition de le « corriger par une redistribution sociale des revenus illégitimes ». Il a refusé de faire partie du club des libéraux fondé par Friedrich von Hayek et Milton Friedman : ils accordaient, selon lui, trop d’importance au droit de propriété… « Toute ma vie d’économiste, j’ai vérifié la justesse de Lacordaire : entre le fort et le faible, c’est la liberté qui opprime et la règle qui libère”, précise Maurice Allais, dont Raymond Aron avait bien résumé la position : « Convaincre des socialistes que le vrai libéral ne désire pas moins qu’eux la justice sociale, et des libéraux que l’efficacité de l’économie de marché ne suffit plus à garantir une répartition acceptable des revenus. » Il ne convaincra ni les uns ni les autres, se disant « libéral et socialiste ».

Éternel casse-pieds inclassable. Il aura démontré la faillite économique soviétique en décryptant le trucage de ses statistiques. Favorable à l’indépendance de l’Algérie, il se mobilise en faveur des harkis au point de risquer l’internement administratif. Privé de la chaire d’économie de Polytechnique car trop dirigiste, « je n’ai jamais été invité à l’ENA, j’ai affronté des haines incroyables ! » Après son Nobel, il continue en dénonçant « la chienlit laisser-fairiste » du néolibéralisme triomphant. Seul moyen d’expression : ses chroniques touffues publiées dans le Figaro, où le protège Alain Peyrefitte. À la mort de ce dernier, en 1999, il est congédié comme un malpropre.

Il vient de publier une tribune alarmiste dénonçant une finance de « casino» : « L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile, jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais, sans doute, il est devenu plus difficile d’y faire face, jamais, sans doute, une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général. » Propos développés l’année suivante dans un petit ouvrage très lisible* qui annonce l’effondrement financier dix ans à l’avance. Ses recommandations en faveur d’un protectionnisme européen, reprises par Chevènement et Le Pen, lui valurent d’être assimilé au diable par les gazettes bien-pensantes. En 2005, lors de la campagne sur le référendum européen, le prix Nobel veut publier une tribune expliquant comment Bruxelles, reniant le marché commun en abandonnant la préférence communautaire, a brisé sa croissance économique et détruit ses emplois, livrant l’Europe au dépeçage industriel : elle est refusée partout, seule l’Humanité accepte de la publier…

Aujourd’hui, à 98 ans, le vieux savant pensait que sa clairvoyance serait au moins reconnue. Non, silence total, à la notable exception du bel hommage que lui a rendu Pierre-Antoine Delhommais dans le Monde. Les autres continuent de tourner en rond, enfermés dans leur « cercle de la raison » •

Éric Conan

* La Crise mondiale aujourd’hui, éditions Clément Juglar, 1999.

Source : Marianne, n°659, décembre 2009.

Maurice Allais

Extraits choisis

J’ai repris certains de ces extraits dans mon livre STOP ! Tirons les leçons de la Crise.

« Depuis deux décennies une nouvelle doctrine s’est peu à peu imposée, la doctrine du libre-échange mondialiste impliquant la disparition de tout obstacle aux libres mouvements des marchandises, des services et des capitaux. Suivant cette doctrine, la disparition de tous les obstacles à ces mouvements serait une condition à la fois nécessaire et suffisante d’une allocation optimale des ressources à l’échelle mondiale. Tous les pays et, dans chaque pays, tous les groupes sociaux verraient leur situation améliorée. Le marché, et le marché seul, était considéré comme pouvant conduire à un équilibre stable, d’autant plus efficace qu’il pouvait fonctionner à l’échelle mondiale. En toutes circonstances, il convenait de se soumettre à sa discipline. […]

Les partisans de cette doctrine, de ce nouvel intégrisme, étaient devenus aussi dogmatiques que les partisans du communisme avant son effondrement définitif avec la chute du Mur de Berlin en 1989. […]

Suivant une opinion actuellement dominante, le chômage, dans les économies occidentales, résulterait essentiellement de salaires réels trop élevés et de leur insuffisante flexibilité, du progrès technologique accéléré qui se constate dans les secteurs de l’information et des transports, et d’une politique monétaire jugée indûment restrictive.

En fait, ces affirmations n’ont cessé d’être infirmées aussi bien par l’analyse économique que par les données de l’observation. La réalité, c’est que la mondialisation est la cause majeure du chômage massif et des inégalités qui ne cessent de se développer dans la plupart des pays. Jamais, des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. […]

La récente réunion du G20 a de nouveau proclamé sa dénonciation du « protectionnisme », dénonciation absurde à chaque fois qu’elle se voit exprimée sans nuance, comme cela vient d’être le cas. Nous sommes confrontés à ce que j’ai par le passé nommé « des tabous indiscutés dont les effets pervers se sont multipliés et renforcés au cours des années ». Car tout libéraliser, on vient de le vérifier, amène les pires désordres.

Les grands dirigeants de la planète montrent une nouvelle fois leur ignorancede l’économie qui les conduit à confondre deux sortes de protectionnismes : il en existe certains de néfastes, tandis que d’autres sont entièrement justifiés. Dans la première catégorie se trouve le protectionnisme entre pays à salaires comparables, qui n’est pas souhaitable en général. Par contre, le protectionnisme entre pays de niveaux de vie très différents est non seulement justifié, mais absolument nécessaire. C’est en particulier le cas à propos de la Chine, avec laquelle il est fou d’avoir supprimé les protections douanières aux frontières. Mais c’est aussi vrai avec des pays plus proches, y compris au sein même de l’Europe. Il suffit au lecteur de s’interroger sur la manière éventuelle de lutter contre des coûts de fabrication cinq ou dix fois moindres – si ce n’est des écarts plus importants encore – pour constater que la concurrence n’est pas viable dans la grande majorité des cas.

Toute cette analyse montre que la libéralisation totale des mouvements de biens, de services et de capitaux à l’échelle mondiale, objectif affirmé de l’Organisation Mondiale du Commerce (OMC) à la suite du GATT, doit être considérée à la fois comme irréalisable, comme nuisible, et comme non souhaitable. […]

Plus concrètement, les règles à dégager sont d’une simplicité folle : du chômage résulte des délocalisations, elles-mêmes dues aux trop grandes différences de salaires… À partir de ce constat, ce qu’il faut entreprendre en devient tellement évident ! Il est indispensable de rétablir une légitime protection. […]

En fait, on ne saurait trop le répéter, la libéralisation totale des échanges et des mouvements de capitaux n’est possible et n’est souhaitable que dans le cadre d’ensembles régionaux, groupant des pays économiquement et politiquement associés, de développement économique et social comparable, tout en assurant un marché suffisamment large pour que la concurrence puisse s’y développer de façon efficace et bénéfique. […]

Chaque organisation régionale doit pouvoir mettre en place dans un cadre institutionnel, politique et éthique approprié une protection raisonnable vis-à-vis de l’extérieur. Cette protection doit avoir un double objectif :

- éviter les distorsions indues de concurrence et les effets pervers des perturbations extérieures;

- rendre impossibles des spécialisations indésirables et inutilement génératrices de déséquilibres et de chômage, tout à fait contraires à la réalisation d’une situation d’efficacité maximale à l’échelle mondiale, associée à une répartition internationale des revenus communément acceptable dans un cadre libéral et humaniste.

Dès que l’on transgresse ces principes, une mondialisation forcenée et anarchique devient un fléau destructeur, partout où elle se propage. […]

L’absence d’une telle protection apportera la destruction de toute l’activité de chaque pays ayant des revenus plus élevés, c’est-à-dire de toutes les industries de l’Europe de l’Ouest et celles des pays développés. Car il est évident qu’avec le point de vue doctrinaire du G20, toute l’industrie française finira par partir à l’extérieur. Il m’apparaît scandaleux que des entreprises ferment des sites rentables en France ou licencient, tandis qu’elles en ouvrent dans les zones à moindres coûts […]. Si aucune limite n’est posée, ce qui va arriver peut d’ores et déjà être annoncé aux Français : une augmentation de la destruction d’emplois, une croissance dramatique du chômage non seulement dans l’industrie, mais tout autant dans l’agriculture et les services. »

« En réalité, ceux qui, à Bruxelles et ailleurs, au nom des prétendues nécessités d’un prétendu progrès, au nom d’un libéralisme mal compris, et au nom de l’Europe, veulent ouvrir l’Union Européenne à tous les vents d’une économie mondialiste dépourvue de tout cadre institutionnel réellement approprié et dominée par la loi de la jungle, et la laisser désarmée sans aucune protection raisonnable ; ceux qui, par là même, sont d’ores et déjà personnellement et directement responsables d’innombrables misères et de la perte de leur emploi par des millions de chômeurs, ne sont en réalité que les défenseurs d’une idéologie abusivement simplificatrice et destructrice, les hérauts d’une gigantesque mystification. […]

Au nom d’un pseudo-libéralisme, et par la multiplication des déréglementations, s’est installée peu à peu une espèce de chienlit mondialiste laissez-fairiste. Mais c’est là oublier que l’économie de marché n’est qu’un instrument et qu’elle ne saurait être dissociée de son contexte institutionnel et politique et éthique. Il ne saurait être d’économie de marché efficace si elle ne prend pas place dans un cadre institutionnel et politique approprié, et une société libérale n’est pas et ne saurait être une société anarchique.

Cette domination se traduit par un incessant matraquage de l’opinion par certains médias financés par de puissants lobbies plus ou moins occultes. Il est pratiquement interdit de mettre en question la mondialisation des échanges comme cause du chômage.

Personne ne veut, ou ne peut, reconnaître cette évidence : si toutes les politiques mises en œuvre depuis trente ans ont échoué, c’est que l’on a constamment refusé de s’attaquer à la racine du mal, la libéralisation mondiale excessive des échanges. Les causes de nos difficultés sont très nombreuses et très complexes, mais une d’elles domine toutes les autres : la suppression progressive de la Préférence Communautaire à partir de 1974 par “l’Organisation de Bruxelles” à la suite de l’entrée de la Grande Bretagne dans l’Union Européenne en 1973.

La mondialisation de l’économie est certainement très profitable pour quelques groupes de privilégiés. Mais les intérêts de ces groupes ne sauraient s’identifier avec ceux de l’humanité tout entière. Une mondialisation précipitée et anarchique ne peut qu’engendrer partout instabilité, chômage, injustices, désordres, et misères de toutes sortes, et elle ne peut que se révéler finalement désavantageuse pour tous les peuples.»

« En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connaît qu’un seul critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Partout se manifeste une régression des valeurs morales, dont une expérience séculaire a montré l’inestimable et l’irremplaçable valeur. Le travail, le courage, l’honnêteté ne sont plus honorés. La réussite économique, fondée trop souvent sur des revenus indus, ne tend que trop à devenir le seul critère de la considération publique.

En engendrant des inégalités croissantes et la suprématie partout du culte de l’argent avec toutes ses implications, le développement d’une politique de libéralisation mondialiste anarchique a puissamment contribué à accélérer la désagrégation morale des sociétés occidentales. »

[Maurice Allais, extraits rédigés entre 1990 et 2009]

Maurice Allais« Cette doctrine [la « chienlit mondialiste laissez-fairiste »] a été littéralement imposée aux gouvernements américains successifs, puis au monde entier, par les multinationales américaines, et à leur suite par les multinationales dans toutes les parties du monde, qui en fait détiennent partout en raison de leur considérable pouvoir financier et par personnes interposées la plus grande partie du pouvoir politique. La mondialisation, on ne saurait trop le souligner, ne profite qu’aux multinationales. Elles en tirent d’énormes profits.

Cette évolution s’est accompagnée d’une multiplication de sociétés multinationales ayant chacune des centaines de filiales, échappant à tout contrôle, et elle ne dégénère que trop souvent dans le développement d’un capitalisme sauvage et malsain. […]

Cette ignorance [des ressorts véritables de la crise actuelle par les « experts » officiels] et surtout la volonté de la cacher grâce à certains médias dénotent un pourrissement du débat et de l’intelligence, par le fait d’intérêts particuliers souvent liés à l’argent. Des intérêts qui souhaitent que l’ordre économique actuel, qui fonctionne à leur avantage, perdure tel qu’il est. Parmi eux se trouvent en particulier les multinationales qui sont les principales bénéficiaires, avec les milieux boursiers et bancaires, d’un mécanisme économique qui les enrichit, tandis qu’il appauvrit la majorité de la population française mais aussi mondiale. » [Maurice Allais, 1998 et 2009]

 

L’analyse de Maurice Allais sur la création monétaire

 « En fait, sans la création de monnaie et de pouvoir d’achat ex nihilo que permet le système du crédit, jamais les hausses extraordinaires des cours de bourse que l’on constate avant les grandes crises ne seraient possibles, car à toute dépense consacrée à l’achat d’actions, par exemple, correspondrait quelque part une diminution d’un montant équivalent de certaines dépenses, et tout aussitôt se développeraient des mécanismes régulateurs tendant à enrayer toute spéculation injustifiée.

Qu’il s’agisse de la spéculation sur les monnaies ou de la spéculation sur les actions, ou de la spéculation sur les produits dérivés, le monde est devenu un vaste casino où les tables de jeu sont réparties sur toutes les longitudes et toutes les latitudes. Le jeu et les enchères, auxquelles participent des millions de joueurs, ne s’arrêtent jamais. Aux cotations américaines se succèdent les cotations à Tokyo et à Hongkong, puis à Londres, Francfort et Paris.

Partout, la spéculation est favorisée par le crédit puisqu’on peut acheter sans payer et vendre sans détenir. On constate le plus souvent une dissociation entre les données de l’économie réelle et les cours nominaux déterminés par la spéculation.

Sur toutes les places, cette spéculation, frénétique et fébrile, est permise, alimentée et amplifiée par le crédit. Jamais dans le passé elle n’avait atteint une telle ampleur.

L’économie mondiale tout entière repose aujourd’hui sur de gigantesques pyramides de dettes, prenant appui les unes sur les autres dans un équilibre fragile. Jamais dans le passé une pareille accumulation de promesses de payer ne s’était constatée. Jamais sans doute il n’est devenu plus difficile d’y faire face. Jamais sans doute une telle instabilité potentielle n’était apparue avec une telle menace d’un effondrement général.

Toutes les difficultés rencontrées résultent de la méconnaissance d’un fait fondamental, c’est qu’aucun système décentralisé d’économie de marchés ne peut fonctionner correctement si la création incontrôlée ex-nihilo de nouveaux moyens de paiement permet d’échapper, au moins pour un temps, aux ajustements nécessaires. [...]

Au centre de toutes les difficultés rencontrées, on trouve toujours, sous une forme ou une autre, le rôle néfaste joué par le système actuel du crédit et la spéculation massive qu’il permet. Tant qu’on ne réformera pas fondamentalement le cadre institutionnel dans lequel il joue, on rencontrera toujours, avec des modalités différentes suivant les circonstances, les mêmes difficultés majeures. Toutes les grandes crises du XIXe et du XXe siècle ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation.

Particulièrement significative est l’absence totale de toute remise en cause du fondement même du système de crédit tel qu’il fonctionne actuellement, savoir la création de monnaie ex-nihilo par le système bancaire et la pratique généralisée de financements longs avec des fonds empruntés à court terme.

En fait, sans aucune exagération, le mécanisme actuel de la création de monnaie par le crédit est certainement le “cancer” qui ronge irrémédiablement les économies de marchés de propriété privée. [...]

Que les bourses soient devenues de véritables casinos, où se jouent de gigantesques parties de poker, ne présenterait guère d’importance après tout, les uns gagnant ce que les autres perdent, si les fluctuations générales des cours n’engendraient pas, par leurs implications, de profondes vagues d’optimisme ou de pessimisme qui influent considérablement sur l’économie réelle. [...] Le système actuel est fondamentalement anti-économique et défavorable à un fonctionnement correct des économies. Il ne peut être avantageux que pour de très petites minorités. »

[Maurice Allais, La Crise mondiale d’aujourd’hui. Pour de profondes réformes des institutions financières et monétaires, 1998]

« Ce qui, pour l’essentiel, explique le développement de l’ère de prospérité générale, aux États-Unis et dans le monde, dans les années qui ont précédé le krach de 1929, c’est l’ignorance, une ignorance profonde de toutes les crises du XIXème siècle et de leur signification réelle. En fait, toutes les grandes crises des XIXème et XXème siècles ont résulté du développement excessif des promesses de payer et de leur monétisation. Partout et à toute époque, les mêmes causes génèrent les mêmes effets et ce qui doit arriver arrive. » [Maurice Allais]


« Ce livre est dédié aux innombrables victimes dans le monde entier de l’idéologie libre-échangiste mondialiste, idéologie aussi funeste qu’erronée, et à tous ceux que n’aveugle pas quelque passion partisane. » [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


Le libéralisme contre le laissez-fairisme

« Les premiers libéraux ont commis une erreur fondamentale en soutenant que le régime de laisser-faire constituait un état économique optimum. » [Maurice Allais, Traité d’économie pure, 1943]

« Le libéralisme ne saurait se réduire au laissez-faire économique ; c’est avant tout une doctrine politique, et le libéralisme économique n’est qu’un moyen permettant à cette politique de s’appliquer efficacement dans le domaine économique. Originellement, d’ailleurs, il n’y avait aucune contradiction entre les aspirations du socialisme et celles du libéralisme.

La confusion actuelle du libéralisme et du laissez-fairisme constitue un des plus grands dangers de notre temps. Une société libérale et humaniste ne saurait s’identifier à une société laxiste, laissez-fairiste, pervertie, manipulée, ou aveugle.

La confusion du socialisme et du collectivisme est tout aussi funeste.

En réalité, l’économie mondialiste qu’on nous présente comme une panacée ne connait qu’un critère, “l’argent”. Elle n’a qu’un seul culte, “l’argent”. Dépourvue de toute considération éthique, elle ne peut que se détruire elle-même.

Les perversions du socialisme ont entrainé l’effondrement des sociétés de l’Est. Mais les perversions laissez-fairistes d’un prétendu libéralisme mènent à l’effondrement des sociétés occidentales. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Une proposition enseignée et admise sans discussion dans toutes les universités américaines et à leur suite dans toutes les universités du monde entier : “Le fonctionnement libre et spontané du marché conduit à une allocation optimale des ressources”.

C’est là le fondement de toute la doctrine libre-échangiste dont l’application aveugle et sans réserve à l’échelle mondiale n’a fait qu’engendrer partout désordres et misères de toutes sortes.

Or, cette proposition, admise sans discussion, est totalement erronée, et elle-ne fait que traduire une totale ignorance de la théorie économique chez tous ceux qui l’ont enseignée en la présentant comme une acquisition fondamentale et définitivement établie de la science économique.

Cette proposition repose essentiellement sur la confusion de deux concepts différents : le concept d’efficacité maximale de l’économie et le concept d’une répartition optimale des revenus.

En fait, il n’y a pas une situation d’efficacité maximale, mais une infinité de telles situations. La théorie économique permet de définir sans ambiguïté les conditions d’une efficacité maximale, c’est-à-dire d’une situation sur la frontière entre les situations possibles et les situations impossibles. Par contre et par elle-même, elle ne permet en aucune façon de définir parmi toutes les situations d’efficacité maximale celle qui doit être considérée comme préférable. Ce choix ne peut être effectué qu’en fonction de considérations éthiques et politiques relatives à la répartition des revenus et à l’organisation de la société.

De plus, il n’est même pas démontré qu’à partir d’une situation initiale donnée le fonctionnement libre des marchés puisse mener le monde à une situation d’efficacité maximale.
Jamais des erreurs théoriques n’auront eu autant de conséquences aussi perverses. » [Maurice Allais, Discours à l’UNESCO du 10 avril 1999]


La théorie contre les faits

« C’est toujours le phénomène concret qui décide si une théorie doit être acceptée ou repoussée. Il n’y a pas, et il ne peut y avoir d’autre critère de la vérité d’une théorie que son accord plus ou moins parfait avec les phénomènes observés. Trop d’experts n’ont que trop tendance à ne pas tenir compte des faits qui viennent contredire leurs convictions.

À chaque époque, les conceptions minoritaires n’ont cessées d’être combattues et rejetées par la puissance tyrannique des “vérités établies”. De tout temps, un fanatisme dogmatique et intolérant n’a cessé de s’opposer aux progrès de la science et à la révision des postulats correspondant aux théories admises et qui venaient les invalider. […] En fait, le consentement universel, et a fortiori celui de la majorité, ne peuvent jamais être considérés comme des critères de la vérité. En dernière analyse, la condition essentielle du progrès, c’est une soumission entière aux enseignements de l’expérience, seule source réelle de notre connaissance. […]

Tôt ou tard, les faits finissent par l’emporter sur les théories qui les nient. La science est en perpétuel devenir. Elle finit toujours par balayer les “vérités établies”.
Depuis les années 1970, un credo s’est peu à peu imposé : la mondialisation est inévitable et souhaitable ; elle seule peut nous apporter la prospérité et l’emploi.
Bien que très largement majoritaire, cette doctrine n’a cependant cessé d’être contredite par le développement d’un chômage persistant qu’aucune politique n’a pu réduire, faute d’un diagnostic correct.

N’en doutons pas, comme toutes les théories fausses du passé, cette doctrine finira par être balayée par les faits, car les faits sont têtus. » [Maurice Allais, Nouveaux combats pour l’Europe, 2002]

« Si utiles et si compétents que puissent être les experts, si élaborés que puissent être leurs modèles, tous ceux qui les consultent doivent rester extrêmement prudents. Tout organisme qui emploie une équipe pour l’établissement de modèles prévisionnels ou décisionnels serait sans doute avisé d’en employer une autre pour en faire la critique, et naturellement de recruter cette équipe parmi ceux qui ne partagent pas tout-à-fait les convictions de la première. » [Maurice Allais, Conférence du 23/10/1967, « L’Économique en tant que Science »]

« Si les taux de change ne correspondent pas à l’équilibre des balances commerciales, le libre-échange ne peut être que nuisible et fondamentalement désavantageux pour tous les pays participants. » [Maurice Allais, Combats pour l'Europe, 1994]


Une application erronée d’une théorie correcte : la théorie des coûts comparés.

« La justification de la politique de libre-échange mondialisé de l’OMC se fonde dans ses principes sur la théorie des coûts comparés présentée par Ricardo en 1817. [NDR : elle explique que, dans un contexte de libre-échange, chaque pays, s’il se spécialise dans la production pour laquelle il dispose de la productivité la plus forte ou la moins faible, comparativement à ses partenaires, accroîtra sa richesse nationale. Ricardo donne l’exemple de l’avantage comparatif du vin pour le Portugal, et des draps pour l’Angleterre]

Mais ce modèle repose sur une hypothèse essentielle, à savoir que la structure des coûts comparatifs reste invariable au cours du temps. En fait, il n’en est ainsi que dans le cas des ressources naturelles. [...] Par contre, dans le domaine industriel, aucun avantage comparatif ne saurait être considéré comme permanent. Chaque pays aspire légitimement à rendre ses industries plus efficaces, et il est souhaitable qu’il puisse y réussir. Il résulte de là que la diminution ou la disparition de certaines activités dans un pays développé en raison des avantages comparatifs d’aujourd’hui pourront se révéler demain fondamentalement désavantageuses dès lors que ces avantages comparatifs disparaitront et qu’il faudra rétablir ces activités. Tel est le cas, par exemple aujourd’hui en France de la sidérurgie, du textile, de la construction navale. [...]

Même lorsqu’il existe des avantages comparatifs de caractère permanent, il peut être tout à fait contre-indiqué de laisser s’établir les spécialisations qui seraient entrainées par une politique généralisée de libre-échange. Ainsi dans le cas de l’agriculture, le libre-échange n’aurait d’autre effet que de faire disparaitre presque totalement l’agriculture de l’Union européenne [ce qui serait] de nature à compromettre son indépendance en matière alimentaire. [...]

Bien plus encore, la théorie simpliste et naïve du commerce international sur laquelle s’appuient les grands gourous du libre-échange mondialiste néglige complètement les coûts externes et les coûts de transition, et elle ne tient aucun compte des coûts psychologiques, très supérieurs aux coûts monétaires, subis par tous ceux que la libéralisation des échanges condamne au chômage et à la détresse. [Maurice Allais, prix Nobel d’économie en 1988, préface de La mondialisation : La destruction des emplois et de la croissance, l'évidence empirique, 1999]


« La concurrence est naturellement malfaisante. Elle devient bienfaisante lorsqu’elle s’exerce dans le cadre juridique qui la plie aux exigences de l’optimum du rendement social. » [Maurice Allais, 1943]

« Je suis convaincu qu’aucune société ne peut longtemps survivre si trop d’injustices sont tolérées. » [Maurice Allais, La lutte contre les inégalités, le projet d’un impôt sur les grosses fortunes et la réforme de la fiscalité, 1979]


« Notre société parait évoluer lentement, mais sûrement, vers une organisation de plus en plus rigide, vers certaines formes de corporatisme, comme celles qui les ont enserrées dans leurs carcans pendant tant de siècles, et que Turgot dénonçait à la veille de la Révolution française. Elle parait se diriger presque inéluctablement vers des systèmes antidémocratiques, tout simplement parce que l’incompréhension de la nature véritable d’un ordre libéral et l’ignorance rendent son fonctionnement impossible, parce que la démocratie, telle qu’elle parait entendue aujourd’hui, mène au désordre, et que des millions d’hommes, pénétrés d’idéologies irréalisables, ne pourront survivre que dans le cadre de régimes centralisés et autoritaires.

Nous visons des temps à de nombreux points semblables à ceux qui ont précédé ou accompagné la décadence de l’empire romain. […] Aujourd’hui comme alors, des féodalités ploutocratiques, politicocratiques et technocratiques s’emparent de l’État. […] Aujourd’hui comme alors, nous assistons indifférents et sans la comprendre, à une transformation profonde de la société qui, si elle se poursuit, entrainera inévitablement la fin de notre civilisation.

Le pessimisme que peut suggérer cette analyse ne conduit pas nécessairement à l’inaction : l’avenir dépend encore, pour une large part, de ce que nous ferons. Mais ceux qui sont réellement attachés à une société libre seront-ils assez lucides, seront-ils capables d’apercevoir les sources réelles de nos maux et les moyens d’y remédier, consentiront-ils à l’effort nécessaire, d’une ampleur tout à fait exceptionnelle, qui pourrait, peut-être, sauvegarder les conditions d’une société libre ?

Le passé ne nous offre que trop d’exemples de sociétés qui se sont effondrées pour n’avoir su ni concevoir, ni réaliser les conditions de leur survie. » [Maurice Allais, conclusion de L’impôt sur le capital et la réforme monétaire, 1977]

Maurice Allais 1943

Sa dernière interview

Extraits de la dernière interview de Maurice Allais, réalisée l’été 2010 par Lise Bourdeau-Lepage et Leïla Kebir pour Géographie, économie, société, 2010/2

L’origine de mon engagement est sans conteste la crise de 1929. [...] Étant sorti major de ma promotion, j’ai pu faire en sorte qu’une bourse d’étude universitaire soit attribuée à plusieurs élèves pour que nous effectuions un voyage d’étude sur place, à l’été 1933. Le spectacle sur place était saisissant. On ne pourrait se l’imaginer aujourd’hui. La misère et la mendicité était présentes partout dans les rues, dans des proportions incroyables. Mais ce qui fut le plus étonnant était l’espèce de stupeur qui avait gagné les esprits, une sorte d’incompréhension face aux évènements qui touchait non seulement l’homme de la rue mais aussi les universitaires, car notre programme de voyage comprenait des rencontres dans de grandes universités : tous nos interlocuteurs semblaient incapables de formuler une réponse. Ma vocation est venue de ce besoin d’apporter une explication, pour éviter à l’avenir la répétition de tels évènements. [...] Pour moi, ce qui compte avant tout dans l’économie et la société, c’est l’homme. [...]

Beaucoup de gens se sont mépris sur mon compte. Je me revendique d’inspiration à la fois libérale et sociale. Mais de nombreux observateurs ne voient qu’un seul de ces aspects, selon ce qu’ils ont envie de regarder. Par ailleurs, j’ai constamment cherché à lutter contre les idéologies dominantes, et mes combats ont évolué en fonction de l’évolution parallèle de ces dogmes successifs. Ceci explique en grande partie les incompréhensions car on n’observe alors que des bribes incomplètes. [...]

{Question : Vous soutenez par exemple, à propos de l’impôt, qu’il faudrait ne pas imposer le revenu du travail mais par contre taxer complètement l’héritage. Pouvez-vous expliquer cette position qui peut paraître très iconoclaste pour bon nombre d’économistes ?}

J’ai qualifié l’impôt sur le revenu de système anti-économique et anti-social, car il est assis sur le travail physique ou intellectuel, sur l’effort, sur le courage. Il est l’expression d’une forme d’iniquité. Baser la fiscalité sur les activités créatrices de richesse est un non sens, tandis que ce que j’ai nommé les revenus « non gagnés » sont pour leur part trop protégés : à savoir par exemple l’appropriation privée des rentes foncières, lorsque la valeur ou le revenu des terrains augmente sans que cette hausse ne résulte d’un quelconque mérite de son propriétaire, mais de décisions de la collectivité ou d’un accroissement de la population. [...]

Je crains que l’économie et la société aient eu durant ces dernières décennies une tendance régulière à oublier le rôle central de la morale, qui est une forme de philosophie de la vie en collectivité. [...]

J’ai depuis toujours, et surtout depuis plus de vingt ans, suggéré des modifications en profondeur des systèmes financiers et bancaires, ainsi que des règles du commerce international. Il faut réformer les banques, réformer le crédit, réformer le mode de création de la monnaie, réformer la bourse et son fonctionnement aberrant, réformer l’OMC et le FMI, car tout se tient. Leur organisation actuelle est directement à l’origine non
seulement de la crise, mais des précédentes, et des suivantes si l’ont n’agit pas. Mes propositions existent et il aurait suffi de s’y référer. Mais ce qui manque est la volonté. Les gouvernements n’écoutent que les conseillers qui sont trop proches des milieux financiers ou économiques en place. On ne cherche pas à s’adresser à des experts plus indépendants. [...]

Les mathématiques ont pris au fil du temps une place excessive, particulièrement dans leurs applications financières. Il ne faut pas imaginer que ceci a toujours existé. [...] Mais par la suite, des économistes ont détourné ces apports, qui sont devenus des instruments pour imposer une analyse, mais sans chercher à la confronter à la réalité. De même, l’utilisation de certains modèles a causé des torts importants à Wall Street. Je rappelle d’ailleurs avoir de longue date demandé une révision de ces comportements, et par exemple l’interdiction des programmes informatiques automatiques qui sont utilisés par les financiers pour spéculer en Bourse.

Liens

Un lien vers des extraits de sa vision sur “la mondialisation, le chômage et les impératifs de l’humanisme

Vous trouverez ici une synthèse de son excellent livre de 1998 La crise mondiale d’aujourd’hui, que je vous recommande particulièrement, pour comprendre la crise actuelle (épuisé, donc à voir d’occasion).

Vous trouverez ici une synthèse de son livre L’Europe en crise

Ici une interview dans La Jaune et la Rouge

Ici un lien vers son article de 2005 : Les effets destructeurs de la Mondialisation

Épilogue

Je signale enfin que la fille de Maurice Allais travaille actuellement (avec difficultés) à la création d’une fondation afin de perpétuer le savoir du grand Maurice Allais. Elle se bat aussi pour préserver sa très riche bibliothèque de plus de 12 000 livres…

Plus d’informations sur sa page Wikipedia et sur l’Association AIRAMA qui lui est consacrée.

Maurice Allais

The Disappearance of Public Intellectuals

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The Crisis of Education as a Public Good

The Disappearance of Public Intellectuals

by HENRY GIROUX
 

With the advent of Neoliberalism, we have witnessed the production and widespread adoption within many countries of what I want to call the politics of economic Darwinsim. As a theater of cruelty and mode of public pedagogy, economic Darwinism removes economics and markets from the discourse of social obligations and social costs.  The results are all around us ranging from ecological devastation and widespread economic impoverishment to the increasing incarceration of large segments of the population marginalized by race and class. Economics now drives politics, transforming citizens into consumers and compassion into an object of scorn.  The language of rabid individualism and harsh competition now replaces the notion of the public and all forms of solidarity not aligned with market values.  As public considerations and issues collapse into the morally vacant pit of private visions and narrow self-interests, the bridges between private and public life are dismantled making it almost impossible to determine how private troubles are connected to broader public issues. Long term investments are now replaced by short term profits while compassion and concern for others are viewed as a weakness.  As public visions fall into disrepair, the concept of the public good is eradicated in favor of Democratic public values are scorned because they subordinate market considerations to the common good.  Morality in this instance simply dissolves, as humans are stripped of any obligations to each other. How else to explain Mitt Romney’s gaffe caught on video in which he derided “47 percent of the people [who] will vote for the president no matter what”?[i] There was more at work here than what some have called a cynical political admission by Romney that some voting blocs do not matter.[ii]  Romney’s dismissive comments about those 47 percent of adult Americans who don’t pay federal income taxes for one reason or another, whom he described as “people who believe that they are victims, who believe the government has a responsibility to care for them, who believe that they are entitled to health care, to food, to housing, to you-name-it,”[iii] makes clear that the logic disposability is now a central feature of American politics.

As the language of privatization, deregulation, and commodification replaces the discourse of the  public good, all things public, including public schools, libraries, transportation systems, crucial infrastructures, and public services, are viewed either as a drain on the market or as a pathology.[iv]  The corrupting influence of money and concentrated power not only supports the mad violence of the defense industry, but turns politics itself into mode of sovereignty in which sovereignty now becomes  identical with policies that benefit the rich, corporations, and the defense industry.”[v]  Thomas Frank is on target when he argues that “Over the course of the past few decades, the power of concentrated money has subverted professions, destroyed small investors, wrecked the regulatory state, corrupted legislators en masse and repeatedly put the economy through he wringer. Now it has come for our democracy itself.”[vi]

Individual prosperity becomes the greatest of social achievements because it allegedly drives innovation and creates jobs. At the same time, massive disparities in income and wealth are celebrated as a justification for a survival of the fittest ethic and homage to a ruthless mode of unbridled individualism.  Vulnerable populations once protected by the social state are now considered a liability because they are viewed as either flawed consumers or present a threat to a right-wing Christian view of America as a white, protestant public sphere. The  elderly, young people, the unemployed, immigrants, and poor whites and minorities of color now constitute a form of human waste and are considered disposable, unworthy of sharing in the rights, benefits, and protections of a substantive democracy.  Clearly, this new politics of disposability and culture of cruelty represents more than an economic crisis, it is also speaks to a deeply rooted crisis of education, agency, and social responsibility.

Under such circumstances, to cite C. W. Mills, we are seeing the breakdown of democracy, the disappearance of critical intellectuals, and “the collapse of those public spheres which offer a sense of critical agency and social imagination.”[vii]  Since the 1970s, we have witnessed the forces of market fundamentalism strip education of its public values, critical content, and civic responsibilities as part of its broader goal of creating new subjects wedded to consumerism, risk-free relationships, and the destruction of the social state.  Tied largely to instrumental purposes and measurable paradigms, many institutions of higher education are now committed almost exclusively to economic goals, such as preparing students for the workforce. Universities have not only strayed from their democratic mission, they seem immune to the plight of students who have to face a harsh new world of high unemployment, the prospect of downward mobility, debilitating debt, and a future that mimics the failures of the past.   The question of what kind of education is needed for students to be informed and active citizens is rarely asked.[viii]

Within both higher education and the educational force of the broader cultural apparatus– with its networks of knowledge production in the old and new media– we are witnessing the emergence and dominance of a powerful and ruthless, if not destructive, market-driven notion of education, freedom, agency, and responsibility. Such modes of education do not foster a sense of organized responsibility central to a democracy. Instead, they foster what might be called a sense of organized irresponsibility–a practice that underlies the economic Darwinism and civic corruption at the heart of American and, to a lesser degree, Canadian politics.

The anti-democratic values that drive free market fundamentalism are embodied in policies now attempting to shape diverse levels of higher education all over the globe. The script has now become overly familiar and increasingly taken for granted, especially in the United States and increasingly in Canada.  Shaping the neoliberal framing of public and higher education is a corporate-based ideology that embraces standardizing the curriculum, top-to-down governing structures,  courses that promote entrepreneurial values, and the reduction of all levels of education to job training sites. For example, one university is offering a master’s degree to students who commit to starting a high-tech company while another allows career officers to teach capstone research seminars in the humanities. In one of these classes, the students were asked to “develop a 30-second commercial on their ‘personal brand.’”[ix]

Central to this neoliberal view of higher education is a market-driven paradigm that  wants to eliminate tenure,  turn the humanities into a job preparation service, and reduce most faculty to the status of part-time and temporary workers, if not simply a new subordinate class of disempowered educators.  The indentured service status of such faculty is put on full display as some colleges have resorted to using “temporary service agencies to do their formal hiring.”[x] Faculty in this view are regarded as simply another cheap army of reserve labor, a powerless group that  universities are eager to exploit in order to increase the bottom line while disregarding the needs and rights of academic laborers and the quality of education that students deserve.

giroux3.jpgThere is no talk in this view of higher education about shared governance between faculty and administrators, nor of educating students as critical citizens rather than potential employees of Wal-Mart.  There is no attempt to affirm faculty as scholars and public intellectuals who have both a measure of autonomy and power. Instead, faculty members are increasingly defined less as intellectuals than as technicians and grant writers. Students fare no better in this debased form of education and are treated either as consumers or as restless children in need of high-energy entertainment—as was made clear in the recent Penn State scandal. Nor is there any attempt to legitimate higher education as a fundamental sphere for creating the agents necessary for an aspiring democracy. This neoliberal corporatized model of higher education exhibits a deep disdain for critical ideals, public spheres, and practices that are not directly linked to market values, business culture, the economy, or the production of short term financial gains.   In fact, the commitment to democracy is beleaguered, viewed less as a crucial educational investment than as a distraction that gets in the way of connecting knowledge and pedagogy to the production of material and human capital.

Higher Education and the Crisis of Legitimacy

In the United States, many of the problems in higher education can be linked to low funding, the domination of universities by market mechanisms, the rise of for-profit colleges, the intrusion of the national security state, and the lack of faculty self-governance, all of which not only contradicts the culture and democratic value of higher education but also makes a mockery of the very meaning and mission of the university as a democratic public sphere.  Decreased financial support for higher education stands in sharp contrast to increased support for tax benefits for the rich, big banks, the Defense Budget, and mega corporations.  Rather than enlarge the moral imagination and critical capacities of students, too many universities are now wedded to producing would-be hedge fund managers, depoliticized students,  and creating modes of education that promote a “technically trained docility.”[xi]  Strapped for money and increasingly defined in the language of corporate culture, many universities are now “pulled or driven principally by vocational, [military], and economic considerations while increasingly removing academic knowledge production from democratic values and projects.”[xii]

College presidents are now called CEOs and speak largely in the discourse of Wall Street and corporate fund managers while at the same time moving without apology or shame between interlocking corporate and academic boards. Venture capitalists scour colleges and universities in search of big profits to be made through licensing agreements, the control of intellectual property rights, and investments in university spinoff companies. In this new Gilded Age of money and profit, academic subjects gain stature almost exclusively through their exchange value on the market. It gets worse as exemplified by one recent example. BB&T Corporation, a financial holdings company, gave a $1 million gift to Marshall University’s business school on the condition that Atlas Shrugged by Ayn Rand [Paul Ryan’s favorite book] be taught in a course.   What are we to make of the integrity of a university when it accepts a monetary gift from a corporation or rich patron demanding as part of the agreement the power to specify what is to be taught in a course or how a curriculum should be shaped?  Some corporations and universities now believe that what is taught in a course is not an academic decision but a market consideration.

Not only does neoliberalism undermine  both civic education and public values and confuse education with training,  it also treats knowledge as a product, promoting a neoliberal logic that views schools as malls, students as consumers, and faculty as entrepreneurs. It gets worse.  As Stanley Aronowitz points out, [t]he absurd neoliberal idea that users should pay for every public good from parks and beaches to highways  has reached education with a vengeance”[xiii] as more and more students are forced to give up attending college because of skyrocketing tuition rates.  In addition, thousands of students are now saddled with debts that will bankrupt their lives in the future. Unfortunately, one measure of this disinvestment in higher education as a public good can be seen in the fact that many states such as California are spending more on prisons than on higher education.[xiv]  Educating low income and poor minorities to be engaged citizens has been undermined by an unholy alliance of law and order conservatives, private prison corporations, and prison guard unions along with the rise of the punishing state, all of whom have an invested interest in locking more people up, especially poor minority youth, rather than educating them.  It is no coincidence that as the U.S., and Canada to a lesser degree, disinvests in the institutions fundamental to a democracy, it has invested heavily in the rise of the prison-industrial complex, and the punishing-surveillance state.  The social costs of prioritizing punishing over educating is clear in one shocking statistic provided by a recent study which states that  “by age 23, almost a third of Americans or 30.2 percent have been arrested for a crime…that researches say is a measure of growing exposure to the criminal justice system in everyday life.”[xv]

Questions regarding how education might enable students to develop a keen sense of prophetic justice, utilize critical analytical skills, and cultivate an ethical sensibility through which they learn to respect the rights of others are becoming increasingly irrelevant in a market-driven and militarized university.  As the humanities and liberal arts are downsized, privatized, and commodified, higher education finds itself caught in the paradox of claiming to invest in the future of young people while offering them few intellectual, civic, and moral supports.

If the commercialization, commodification, and militarization of the university continue unabated, higher education will become yet another one of a number of institutions incapable of fostering critical inquiry, public debate, human acts of justice, and public values. But the calculating logic of the corporate university does more than diminish the moral and political vision and practices necessary to sustain a vibrant democracy and an engaged notion of social agency. It also undermines the development of public spaces where matters of dissent, critical dialogue, social responsibility, and social justice are pedagogically valued– viewed as fundamental to providing students with the knowledge and skills necessary to address the problems facing the nation and the globe. Such democratic public spheres are especially important at a time when any space that produces “critical thinkers capable of putting existing institutions into question” is under siege by powerful economic and political interests.[xvi]

Higher education has a responsibility not only to search for the truth regardless of where it may lead, but also to educate students to make authority and power politically and morally accountable while at the same time sustaining “the idea and hope of a public culture.”[xvii]  Though questions regarding whether the university should serve strictly public rather than private interests no longer carry the weight of forceful criticism they did in the past, such questions are still crucial in addressing the purpose of higher education and what it might mean to imagine the university’s full participation in public life as the protector and promoter of democratic values.

What needs to be understood is that higher education may be one of the few public spheres left where knowledge, values, and learning offer a glimpse of the promise of education for nurturing public values, critical hope, and a substantive democracy.  It may be the case that everyday life is increasingly organized around market principles; but confusing a market-determined society with democracy hollows out the legacy of higher education, whose deepest roots are moral, not commercial. This is a particularly important insight in a society where the free circulation of ideas are not only being replaced by ideas managed by the dominant media, but where critical ideas are increasingly viewed or dismissed as banal, if not reactionary. Celebrity culture and the commodification of culture now constitute a powerful form of mass illiteracy and increasingly permeate all aspects the educational force of the wider cultural apparatus. But mass illiteracy does more than depoliticize the public, it also becomes complicit with the suppression of dissent.  Intellectuals who engage in dissent and “keep the idea and hope of a public culture alive,”[xviii] are often dismissed as irrelevant, extremist, or un-American. Moreover, anti-public intellectuals now dominate the larger cultural landscape, all too willing to flaunt co-option and reap the rewards of venting insults at their assigned opponents while being reduced to the status of paid servants of powerful economic interests.  At the same time, there are too few academics willing to defend higher education for its role in providing a supportive and sustainable culture in which a vibrant critical democracy can flourish.

These issues, in part, represent political and pedagogical concerns that should not be lost on either academics or those concerned about the purpose and meaning of higher education. Democracy places civic demands upon its citizens, and such demands point to the necessity of an education that is broad-based, critical, and supportive of meaningful civic values, participation in self-governance, and democratic leadership. Only through such a formative and critical educational culture can students learn how to become individual and social agents, rather than merely disengaged spectators,  able both to think otherwise and  to act upon civic commitments that “necessitate a reordering of basic power arrangements” fundamental to promoting the common good and producing a meaningful democracy.

Dreaming the Impossible

Reclaiming higher education as a democratic public sphere begins with the crucial project of challenging, among other things, those market fundamentalists, religious extremists, and rigid ideologues who harbor a deep disdain for critical thought and healthy skepticism, and who look with displeasure upon any form of education that teaches students to read the word and the world critically. The radical imagination in this discourse is viewed as dangerous and a dire threat to political authorities. One striking example of this view was expressed recently by former Senator Rick Santorum who argues that there is no room for intellectuals in the Republican Party. Needless to say, education is not only about issues of work and economics, but also about questions of justice, social freedom, and the capacity for democratic agency, action, and change, as well as the related issues of power, inclusion, and citizenship. These are educational and political issues, and they should be addressed as part of a broader effort to re-energize the global struggle for social justice and democracy.

If higher education is to characterize itself as a site of critical thinking, collective work, and public service, educators and students will have to redefine the knowledge, skills, research, and intellectual practices currently favored in the university. Central to such a challenge is the need to position intellectual practice “as part of an intricate web of morality, rigor and responsibility” that enables academics to speak with conviction, use the public sphere to address important social problems, and demonstrate alternative models for bridging the gap between higher education and the broader society.  Connective practices are key: it is crucial to develop intellectual practices that are collegial rather than competitive, refuse the instrumentality and privileged isolation of the academy, link critical thought to a profound impatience with the status quo, and connect human agency to the idea of social responsibility and the politics of possibility.

Connection also means being openly and deliberately critical and worldly in one’s intellectual work. Increasingly, as universities are shaped by a culture of fear in which dissent is equated with treason, the call to be objective and impartial, whatever one’s intentions, can easily echo what George Orwell called the official truth or the establishment point of view. Lacking a self-consciously democratic political focus, teachers are often reduced to the role of a technician  or functionary engaged in formalistic rituals, unconcerned with the disturbing and urgent problems that confront the larger society or the consequences of one’s pedagogical practices and research undertakings. In opposition to this model, with its claims to and conceit of political neutrality, I argue that academics should combine the mutually interdependent roles of critical educator and active citizen. This requires finding ways to connect the practice of classroom teaching with the operation of power in the larger society and to provide the conditions for students to view themselves as critical agents capable of making those who exercise authority and power answerable for their actions. Such an intellectual does not train students solely for jobs, but also educates them to question critically the institutions, policies, and values that  shape their lives, relationships to others, and myriad connections to the larger world.

I think Stuart Hall is on target here when he insists that educators also have a responsibility to provide students with “critical knowledge that has to be ahead of traditional knowledge: it has to be better than anything that traditional knowledge can produce, because only serious ideas are going to stand up.”[xix] At the same time, he insists on the need for educators to “actually engage, contest, and learn from the best that is locked up in other traditions,” especially those attached to traditional academic paradigms.[xx]  It is also important to remember that education as a utopian project is not simply about fostering critical consciousness but also about teaching students to take responsibility for one’s responsibilities, be they personal, political, or global. Students must be made aware of the ideological and structural forces that promote needless human suffering while also recognizing that it takes more than awareness to resolve them. This is the kind of intellectual practice that Zygmunt Bauman calls “taking responsibility for our responsibility,”[xxi] one that is attentive to the suffering and needs of others.

Education cannot be decoupled from what Jacques Derrida calls a democracy to come, that is, a democracy that must always “be open to the possibility of being contested, of contesting itself, of criticizing and indefinitely improving itself.”[xxii]  Within this project of possibility and impossibility, education must be understood as a deliberately informed and purposeful political and moral practice, as opposed to one that is either doctrinaire, instrumentalized, or both. Moreover, a critical pedagogy should be engaged at all levels of schooling. Similarly, it must gain part of its momentum in higher education among students who will go back to the schools, churches, synagogues, and workplaces in order to produce new ideas, concepts, and critical ways of understanding the world in which young people and adults live. This is a notion of intellectual practice and responsibility that refuses the insular, overly pragmatic, and privileged isolation of the academy.  It also affirms a broader vision of learning that links knowledge to the power of self-definition and to the capacities of students to expand the scope of democratic freedoms, particularly those that address the crisis of education, politics, and the social as part and parcel of the crisis of democracy itself.

In order for critical pedagogy, dialogue, and thought to have real effects,  they must advocate the message that all citizens, old and young, are equally entitled, if not equally empowered, to shape the society in which they live. This is a message we heard from the brave students fighting tuition hikes and the destruction of civil liberties and social provisions in Quebec and to a lesser degree in the Occupy Wall Street movement.  If educators are to function as public intellectuals, they need listen to young people all over the world who are insisting that the relationship between knowledge and power can be emancipatory, that their histories and experiences matter, and that what they say and do counts in their struggle to unlearn dominating privileges, productively reconstruct their relations with others, and transform, when necessary, the world around them. Simply put, educators need to argue for forms of pedagogy that close the gap between the university and everyday life. Their curricula need to be organized around knowledge of those communities, cultures, and traditions that give students a sense of history, identity, place, and possibility. More importantly, they need to join students in engaging in a practice of freedom that points to new and radical forms of pedagogies that have a direct link to building social movements in and out of the colleges and universities.

Although there are still a number of academics such as Noam Chomsky, Angela Davis, Stanley Aronowitz, Slavoj Zizek, Russell Jacoby, and Cornel West who function as public intellectuals, they are often shut out of the mainstream media or characterized as marginal, even subversive figures. At the same time, many academics find themselves laboring under horrendous working conditions that either don’t allow for them to write in an accessible manner for the public because they do not have time—given the often almost slave-like labor demanded of part-time academics and increasingly of full-time academics as well—or they retreat into a highly specialized, professional language that few people can understand in order to meet the institutional standards of academic excellence. In this instance, potentially significant theoretical rigor detaches itself both from any viable notion of accessibility and from the possibility of reaching a larger audience outside of their academic disciplines.

Consequently, such intellectuals often exist in hermetic academic bubbles cut off from both the larger public and the important issues that impact society. To no small degree, they have been complicit in the transformation of the university into an adjunct of corporate and military power. Such academics have become incapable of defending higher education as a vital public sphere and unwilling to challenge those spheres of induced mass cultural illiteracy and firewalls of jargon that doom critically engaged thought, complex ideas, and serious writing for the public to extinction. Without their intervention as public intellectuals, the university defaults on its role as a democratic public sphere capable of educating an informed public, a culture of questioning, and the development of a critical formative culture connected to the need, as Cornelius Castoriadis puts it, “to create citizens who are critical thinkers capable of putting existing institutions into question so that democracy again becomes society’s movement.”[xxiii]

Before his untimely death, Edward Said, himself an exemplary public intellectual, urged his colleagues in the academy to directly confront those social hardships that disfigure contemporary society and pose a serious threat to the promise of democracy.  He urged them to assume the role of public intellectuals, wakeful and mindful of their responsibilities to bear testimony to human suffering and the pedagogical possibilities at work in educating students to be autonomous, self-reflective, and socially responsible. Said rejected the notion of a market-driven pedagogy, one that created cheerful robots and legitimated organized recklessness and illegal legalities.  In opposition to such a pedagogy, Said argued for what he called a pedagogy of  wakefulness and its related concern with a politics of critical engagement. In commenting on Said’s public pedagogy of wakefulness, and how it shaped his important consideration of academics as public intellectuals, I begin with a passage that I think offers a key to the ethical and political force of much of his writing. This selection is taken from his memoir, Out of Place, which describes the last few months of his mother’s life in a New York hospital and the difficult time she had falling to sleep because of the cancer that was ravaging her body. Recalling this traumatic and pivotal life experience, Said’s meditation moves between the existential and the insurgent, between private pain and worldly commitment, between the seductions of a “solid self” and the reality of a contradictory, questioning, restless, and at times, uneasy sense of identity. He writes:

‘Help me to sleep, Edward,’ she once said to me with a piteous trembling in her voice that I can still hear as I write. But then the disease spread into her brain—and for the last six weeks she slept all the time—my own inability to sleep may be her last legacy to me, a counter to her struggle for sleep. For me sleep is something to be gotten over as quickly as possible. I can only go to bed very late, but I am literally up at dawn. Like her I don’t possess the secret of long sleep, though unlike her I have reached the point where I do not want it. For me, sleep is death, as is any diminishment in awareness. ..Sleeplessness for me is a cherished state to be desired at almost any cost; there is nothing for me as invigorating as immediately shedding the shadowy half-consciousness of a night’s loss than the early morning, reacquainting myself with or resuming what I might have lost completely a few hours earlier. I occasionally experience myself as a cluster of flowing currents. I prefer this to the idea of a solid self, the identity to which so many attach so much significance. These currents like the themes of one’s life, flow along during the waking hours, and at their best, they require no reconciling, no harmonizing. They are ‘off’ and may be out of place, but at least they are always in motion, in time, in place, in the form of all kinds of strange combinations moving about, not necessarily forward, sometimes against each other, contrapuntally yet without one central theme. A form of freedom, I like to think, even if I am far from being totally convinced that it is. That skepticism too is one of the themes I particularly want to hold on to. With so many dissonances in my life I have learned actually to prefer being not quite right and out of place.[xxiv]

It is this sense of being awake, displaced, caught in a combination of diverse circumstances that suggests a pedagogy that is cosmopolitan and imaginative–a public affirming pedagogy that demands a critical and engaged interaction with the world we live in mediated by a responsibility for challenging structures of domination and for alleviating human suffering.  As an ethical and political practice, a public pedagogy of wakefulness rejects modes of education removed from political or social concerns, divorced from history and matters of injury and injustice. Said’s notion of a pedagogy of wakefulness includes “lifting complex ideas into the public space,” recognizing human injury inside and outside of the academy, and using theory as a form of criticism to change things.[xxv] This is a pedagogy in which academics are neither afraid of controversy or the willingness to make connections that are otherwise hidden, nor are they afraid of making clear the connection between private issues and broader elements of society’s problems.

For Said, being awake becomes a central metaphor for defining the role of academics as public intellectuals, defending the university as a crucial public sphere, engaging how culture deploys power, and taking seriously the idea of human interdependence while at the same time always living on the border — one foot in and one foot out, an exile and an insider for whom home was always a form of homelessness. As a relentless border crosser, Said embraced the idea of the “traveler” as an important metaphor for engaged intellectuals. As Stephen Howe, referencing Said, points out, “It was an image which depended not on power, but on motion, on daring to go into different worlds, use different languages, and ‘understand a multiplicity of disguises, masks, and rhetorics. Travelers must suspend the claim of customary routine in order to live in new rhythms and rituals … the traveler crosses over, traverses territory, and abandons fixed positions all the time.’”[xxvi]  And as a border intellectual and traveler, Said embodied the notion of always “being quite not right,” evident by his principled critique of all forms of certainties and dogmas and his refusal to be silent in the face of human suffering at home and abroad.

Being awake meant refusing the now popular sport of academic bashing or embracing a crude call for action at the expense of rigorous intellectual and theoretical work. On the contrary, it meant combining rigor and clarity, on the one hand, and civic courage and political commitment, on the other. A pedagogy of wakefulness meant using theory as a resource, recognizing the worldly space of criticism as the democratic underpinning of publicness, defining critical literacy not merely as a competency, but as an act of interpretation linked to the possibility of intervention in the world. It pointed to a kind of border literacy in the plural in which people learned to read and write from multiple positions of agency; it also was indebted to the recognition forcibly stated by Hannah Arendt that “Without a politically guaranteed public realm, freedom lacks the worldly space to make its appearance.”[xxvii]

For public intellectuals such as Said, Chomsky, Bourdieu, Angela Davis, and others, intellectuals have a responsibility to unsettle power, trouble consensus, and challenge common sense.  The very notion of being an engaged public intellectual is neither foreign to nor a violation of what it means to be an academic scholar, but central to its very definition.  According to Said, academics have a duty to enter into the public sphere unafraid to take positions and generate controversy, functioning as moral witnesses, raising political awareness, making connections to those elements of power and politics often hidden from public view, and reminding “the audience of the moral questions that may be hidden in the clamor and din of the public debate.”[xxviii]  At the same time, Said criticized those academics who retreated into a new dogmatism of the disinterested specialist that separates them “not only from the public sphere but from other professionals who don’t use the same jargon.”[xxix] This was especially unsettling to him at a time when complex language and critical thought remain under assault in the larger society by all manner of anti-democratic forces.

g9781612050560.jpgThe view of higher education as a democratic public sphere committed to producing young people capable and willing to expand and deepen their sense of themselves, to think the “world” critically, “to imagine something other than their own well-being,” to serve the public good, and to struggle for a substantive democracy has been in a state of acute crisis for the last thirty years.[xxx]  When faculty assume, in this context, their civic responsibility to educate students to think critically, act with conviction, and connect what they learn in classrooms to important social issues in the larger society, they are often denounced for politicizing their classrooms and for violating professional codes of conduct, or, worse, labelled as unpatriotic.[xxxi] In some cases, the risk of connecting what they teach to the imperative to expand the capacities of students to be both critical and socially engaged may costs academics their jobs, especially when they make visible the workings of power, injustice, human misery, and the alterable nature of the social order. What do the liberal arts and humanities amount to if they do not teach the practice of freedom, especially at a time when training is substituted for education?  Gayatri Spivak provides a context for this question with her comment: “”Can one insist on the importance of training in the humanities in [a] time of legitimized violence?”[xxxii]

In a society that remains troublingly resistant to or incapable of questioning itself, one that celebrates the consumer over the citizen,  and  all too willingly endorses the narrow values and interests of corporate power, the importance of the  university as a place of critical learning, dialogue, and social justice advocacy becomes all the more imperative.  Moreover, the distinctive role that faculty play in this ongoing pedagogical project of democratization and learning, along with support for the institutional conditions and relations of power that make it possible, must be defended as part of a broader discourse of excellence, equity, and democracy.

Despite the growing public recognition that market fundamentalism has fostered a destructive alignment among the state, corporate capital, and transnational corporations, there is little understanding that such an alignment has been constructed and solidified through a neoliberal disciplinary apparatus and corporate pedagogy produced in part in the halls of higher education and through the educational force of the larger media culture.  The economic Darwinism of the last thirty years has done more than throw the financial and credit system into crisis; it has also waged an attack on all those social institutions that support critical modes of agency, reason, and meaningful dissent.  And yet, the financial meltdown most of the world is experiencing is rarely seen as part of an educational crisis in which the institutions of public and higher education have been conscripted into a war on democratic values. Such institutions have played a formidable, if not shameless role, in reproducing market-driven beliefs, social relations, identities, and modes of understanding that legitimate the institutional arrangements of cut-throat capitalism.  William Black calls such institutions purveyors of a “criminogenic environment”—one that promotes and legitimates market-driven practices that include fraud, deregulation, and other perverse practices.[xxxiii]  Black claims that the most extreme pedagogical expression of such an environment can be found in business schools, which he calls “fraud factories” for the elite.[xxxiv]

There seems to be an enormous disconnect between the economic conditions that led to the current financial meltdown and the current call to action by a generation of young people and adults who have been educated for the last several decades in the knowledge, values, and identities of a market-driven society.  Clearly, this generation will not solve this crisis if they do not connect it to the assault on an educational system that has been reduced to a lowly adjunct of corporate interests and the bidding of the warfare state.

Higher education represents one the most important sites over which the battle for democracy is being waged. It is the site where the promise of a better future emerges out of those visions and pedagogical practices that combine hope, agency, politics, and moral responsibility as part of a broader emancipatory discourse. Academics have a distinct and unique obligation, if not political and ethical responsibility, to make learning relevant to the imperatives of a discipline, scholarly method, or research specialization. But more  importantly, academics as engaged scholars can further the activation of knowledge, passion, values, and hope in the service of forms of agency that are crucial to sustaining a democracy in which higher education plays an important civic, critical, and pedagogical role.  If democracy is a way of life that demands a formative culture, educators can play a pivotal role in creating forms of pedagogy and research that enable young people to think critically, exercise judgment, engage in spirited debate, and create those public spaces that constitute “the very essence of political life.”[xxxv]

Finally, I want to suggest that while it has become more difficult to imagine a democratic future, we have entered a period in which young people all over the world are protesting against neoliberalism and its pedagogy and politics of disposability. Refusing to remain voiceless and powerless in determining their future, these young people are organizing collectively  in order  to create the conditions for societies that refuse to use politics as an act of war and markets as the measure of democracy. They are taking seriously the words of the great abolitionist Frederick Douglas who bravely argued that freedom is an empty abstraction if people fail to act, and “if there is no struggle, there is no progress.”

Their struggles are not simply aimed at the 1% but also the 99 percent as part of a broader effort to get them to connect the dots, educate themselves, and develop and join social movements that can rewrite the language of democracy and put into place the institutions and formative cultures that make it possible. Stanley Aronowitz is right in arguing that “The system survives on the eclipse of the radical imagination, the absence of a viable political opposition with roots in the general population, and the conformity of its intellectuals who, to a large extent, are subjugated by their secure berths in the academy. [At the same time,] it would be premature to predict that decades of retreat, defeat and silence can be reversed overnight without a commitment to what may be termed  ‘a long march’ though the institutions, the workplaces and the streets of the capitalist metropoles.”[xxxvi]

The current protests in the United States, Canada, Greece, and Spain make clear that this is not–indeed, cannot be–only a short-term project for reform, but a political movement that needs to intensify, accompanied by the reclaiming of public spaces, the progressive use of digital technologies, the development of public spheres,  the production of new modes of education, and the safeguarding of places where democratic expression, new identities, and collective hope can be nurtured and mobilized.  A formative culture must be put in place pedagogically and institutionally in a variety of spheres extending from churches and public and higher education to all those cultural apparatuses engaged in the production and circulation of knowledge, desire, identities, and values. Clearly, such efforts need to address the language of democratic revolution rather than the seductive incremental adjustments of liberal reform. This suggest not only calling for a living wage, jobs programs, especially for the young, the democratization of power, economic equality, and a massive shift in funds away from the machinery of war and big banks  but also a social movement that not only engages in critique but makes hope a real possibility by organizing to seize power.  There is no room for failure here because failure would cast us back into the clutches of authoritarianism–that while different from previous historical periods–shares nonetheless the imperative to proliferate violent social formations and a death-dealing blow to the promise of a democracy to come.

Given the urgency of the problems faced by those marginalized by class, race, age, and sexual orientation, I think it is all the more crucial to take seriously the challenge of Derrida’s provocation that “We must do and think the impossible. If only the possible happened, nothing more would happen. If I only I did what I can do, I wouldn’t do anything.”[xxxvii]  We may live in dark times as Hannah Arendt reminds us, but history is open and the space of the possible is larger than the one on display.

Henry A. Giroux holds the Global TV Network chair in English and Cultural Studies at McMaster University in Canada. His most recent books include: “Take Back Higher Education” (co-authored with Susan Searls Giroux, 2006), “The University in Chains: Confronting the Military-Industrial-Academic Complex” (2007) and “Against the Terror of Neoliberalism: Politics Beyond the Age of Greed” (2008). His latest book is Twilight of the Social: Resurgent Publics in the Age of Disposability,” (Paradigm.)


Notes.

[i] David Corn, “Secret Video: Romney Tells Millionaire Donors What He Really Thinks of Obama Voters,” Mother Jones (September 17, 2012). Online: http://www.motherjones.com/politics/2012/09/secret-video-romney-private-fundraiser

[ii] Naomi Wolf, “How the Mitt Romney Video Killed the American Dream,” The Guardian (September 21, 2012). Online: http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2012/sep/21/mitt-romney-video-killed-american-dream?newsfeed=true

[iii] Corn, “Secret Video,” http://www.motherjones.com/politics/2012/09/secret-video-romney-private-fundraiser

[iv] George Lakoff and Glenn W. G Smith, “Romney, Ryan and the Devil’s Budget,” Reader Supported News, (August 22, 2012). Online:

http://blogs.berkeley.edu/2012/08/23/romney-ryan-and-the-devils-budget-will-america-keep-its-soul/

[v] João Biehl, Vita: Life in a Zone of Social Abandonment (Los Angeles: University of California Press, 2005). These zones are also brilliantly analyzed in Chris Hedges and Joe Sacco, Days of Destruction, Days of Revolt (New York: Knopf, 2012).

[vi] Thomas Frank, “It’s a rich man’s world: How billionaire backers pick America’s candidates,”

Harper’s Magazine (April 2012). Online: http://harpers.org/archive/2012/04/0083856

[vii]. C. Wright Mills, The Politics of Truth: Selected Writings of C. Wright Mills, (New York: Oxford University Press, 2008), p. 200.

[viii]. Stanley Aronowitz, “Against Schooling: Education and Social Class,” Against Schooling, (Boulder, CO: Paradigm Publishers, 2008), p. xii.

[ix]. Ibid, Kate Zernike, “Making College ‘Relevant’,” P. ED 16.

[x] Scott Jaschik, “Making Adjuncts Temps—Literally,” Inside Higher Ed (August 9, 2010). Online: http://www.insidehighered.com/news/2010/08/09/adjuncts

[xi] Martha C. Nussbaum, Not For Profit: Why Democracy Needs The Humanities, (New Jersey: Princeton University Press, 2010), p. 142.

[xii] Greig de Peuter, “Universities, Intellectuals, and Multitudes: An Interview with Stuart Hall”, in Mark Cote, Richard J. F. Day, and Greig de Peuter, eds.,Utopian Pedagogy: Radical Experiments against Neoliberal Globalization, (Toronto: University of Toronto Press, 2007), p. 111.

[xiii]. Ibid., Aronowitz, Against Schooling, p. xviii.

[xiv] Les Leopold, “Crazy Country: 6 Reasons America Spends More on Prisons Than On Higher Education,” Alternet, (August 27, 2012). Online

http://www.alternet.org/education/crazy-country-6-reasons-america-spends-more-prisons-higher-education?paging=off. On this issue, see also the classic work by Angela Davis: Are Prisons Obsolete? (New York: Open  Media, 2003) and Michelle Alexander, New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness (New York: New Press, 2012).

[xv] Erica Goode, “Many in U.S. Are Arrested by Age 23, Study Finds,” New York Times (December 19, 2011), p. A15.

[xvi]. Cornelius Castoriadis, “Democracy as Procedure and democracy as Regime,” Constellations 4:1 (1997), p. 5.

[xvii] George Scialabba, What Are Intellectuals Good For? (Boston: Pressed Wafer, 2009) p. 4.

17. Ibid. .

[xix]. Greig de Peuter, Universities, Intellectuals and Multitudes: An Interview with Stuart Hall,” in Mark Cote, Richard J. F. Day, and Greig de Peuter, eds.  Utopian Pedagogy: Radical Experiments Against Neoliberal Globalization (Toronto: University of Toronto Press, 2007), p. 113-114.

[xx]. De Peuter, Ibid. P. 117.

[xxi]. Cited in Madeline Bunting, “Passion and Pessimism,” The Guardian (April 5, 2003). Available online: http:/books.guardian.co.uk/print/0,3858,4640858,00.html.

[xxii]. Giovanna Borriadori, ed., “Autoimmunity: Real and Symbolic Suicides–A Dialogue with Jacques Derrida,” in Philosophy in a Time of Terror: Dialogues with Jurgen Habermas and Jacques Derrida (Chicago: University of Chicago Press, 2004). P. 121.

[xxiii]. Cornelius Castoriadis, “Democracy as Procedure and Democracy as Regime,” Constellations 4:1 (1997), p.  10.

[xxiv]. Edward Said, Out of Place: A Memoir  (New York: Vintage, 2000), pp. 294-299

[xxv]. Said, Out of Place, p. 7.

[xxvi]. Stephen Howe, “Edward Said: The Traveller and the Exile,” Open Democracy (October 2, 2003). Online at: www.opendemocracy.net/articles/ViewPopUpArticle.jsp?id=10&articleId=1561.

[xxvii]. Hannah Arendt, Between Past and Future: Eight Exercises in Political Thought (New York: Penguin, 1977), p. 149.

[xxviii]. Edward Said, “On Defiance and Taking Positions,” Reflections On Exile and Other Essays (Cambridge: Harvard University Press, 2001), p. 504.

[xxix]. Edward Said, Humanism and Democratic Criticism (New York: Columbia University Press, 2004), p. 70.

[xxx]. See, especially, Christopher Newfield, Unmaking the Public University: The Forty-Year Assault on the Middle Class (Cambridge: Harvard University Press, 2008).

[xxxi]. See Henry A. Giroux, “Academic Unfreedom in America: Rethinking the University as a Democratic Public Sphere,” in Edward J. Carvalho, ed.,  “Academic Freedom and Intellectual Activism in the Post-9/11 University,” special issue of Work and Days 51–54 (2008–2009), pp. 45–72. This may be the best collection yet published on intellectual activism and academic freedom.

[xxxii] Gayatri Chakravorty Spivak, “Changing Reflexes: Interview with Gayatri Chakravorty Spivak,” Works and Days, 55/56: Vol. 28, 2010, p. 8.

[xxxiii]. Bill Moyers, “Interview with William K. Black,” Bill Moyers Journal (April 23, 2010).

Online at:  http://www.pbs.org/moyers/journal/04232010/transcript4.html

[xxxiv]. Moyers, “Interview with William K. Black.”

[xxxv]. See, especially, H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, 3rd edition, revised (New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1968); and J. Dewey, Liberalism and Social Action [orig. 1935] (New York: Prometheus Press, 1999).

35.  Ibid, Aronowitz, “The Winter of Our Discontent,” p. 68.

[xxxvii]  Jacques Derrida, “No One is Innocent: A Discussion with Jacques About Philosophy in the Face of Terror,” The Information Technology, War and Peace Project, p. 2 available online: http://www.watsoninstitute.org/infopeace/911/derrida_innocence.html

lundi, 15 octobre 2012

L’Atlantisme est un totalitarisme

L’Atlantisme est un totalitarisme

par Guillaume de ROUVILLE

Ex: http://mediabenews.wordpress.com/

L’Atlantisme est l’idéologie dominante des sociétés européennes actuelles, celle qui aura sans doute le plus d’influence sur le devenir de nos destinées communes et pourtant elle est de ces idéologies presque cachées dont on ne parle ouvertement que dans le cercle restreint du monde alternatif. Sont Atlantistes tous les collaborateurs européens de la vision hégémonique des États-Unis et de son idéologie propre qui répond au doux nom d’impérialisme. Autrement dit, l’Atlantisme est l’idéologie des exécutants serviles de l’idéologie impériale américaine ; elle lui est subordonnée et ne tire de sa soumission que les miettes de l’empire tombées à terre après le festin des empereurs.

C’est une idéologie mineure dans l’idéologie majeure. Elle est à la fois  honteuse et conquérante : honteuse parce qu’elle ne joue jamais que les seconds rôles ; conquérante, parce qu’elle emprunte à son maître d’outre-atlantique ses visions hégémoniques délirantes et toutes ses caractéristiques totalitaires. C’est un totalitarisme dans le totalitarisme, une domination de dominés, un impérialisme de serfs et d’esclaves passés maîtres dans l’art de se soumettre. Parler de l’Atlantisme européen c’est parler du projet impérial américain et réciproquement. La seule chose qui les distingue est leur place dans la hiérarchie totalitaire : le premier n’est que l’émanation du second, ne se définit que par lui, se contente de l’imiter et lui obéit en tout ; il n’est, en revanche, son égal en rien.

Chaque continent a ses collaborateurs au service de l’impérialisme américain, chaque zone d’influence de ce dernier a son atlantisme à lui. Nous aurions pu ainsi nous contenter d’évoquer les caractéristiques totalitaires de l’impérialisme américain pour comprendre l’Atlantisme. Mais, la position de subordination que les Européens ont adopté par rapport à leur modèle nord américain est le résultat d’un choix de nos élites auquel nous devons nous confronter directement, plutôt que de rejeter toute forme de responsabilité sur l’oligarchie américaine. Prenons notre part de responsabilité, voyons-nous tels que nous sommes, accomplissons un travail d’introspection nécessaire avant de relever la tête et de retrouver notre dignité. Car, avant de pouvoir se rebeller contre ses maîtres, il faut se percevoir comme esclave et reconnaître la part de consentement et de lâcheté qu’il y a dans cette situation.

D’un totalitarisme l’autre

Les caractéristiques de cette idéologie sont nombreuses et ne revêtent pas toutes la même importance, mais elles dessinent très clairement une idéologie totalitaire ayant ses spécificités propres qui ne se retrouvent pas nécessairement telles quelles dans les totalitarisme érigés en momies d’observation comme le stalinisme ou le nazisme. Il ne nous semble pas utile, en effet, de comparer l’Atlantisme à d’autres totalitarismes passés de mode, car on peut être un totalitarisme à part entière sans partager toutes les caractéristiques de ses modèles les plus achevés, modèles qui appartiennent à une autre époque.

Il y a plusieurs degrés dans le totalitarisme atlantiste ; comme il y a plusieurs manières de le subir. Selon que l’on est un peuple d’Afrique ou du Moyen Orient ou un citoyen allemand ou français appartenant à la classe des favorisés, on ne vit pas de la même manière le totalitarisme atlantiste. S’il est globalement meurtrier, il peut être localement bénéfique pour une minorité. Autrement dit,le totalitarisme atlantiste est à géométrie variable (c’est son caractère ambigu) : tantôt impitoyable et brutal avec les uns, il peut être plus tranquille et pourvoyeur de certains bienfaits pour ceux qui le respectent et courbent l’échine devant sa puissance. Il n’en est pas moins présent partout et ne tolère guère la contestation quand cette dernière revêt un caractère menaçant pour son emprise.

Car, si vous pouvez contester ses caractéristiques mineures et jouir, pour se faire, de la plus totale liberté, vous ne serez pas autorisé à vous attaquer, dans la force des faits[1], à ses fondamentaux : (1) le libéralisme financier et la puissance des banques, (2) la domination du dollar dans les échanges internationaux, (3) les guerres de conquête du complexe militaro-industriel – pour, notamment, l’accaparement des ressources naturelles des pays périphérique à ses valeurs - ; (4) l’hégémonisme total des États-Unis (dans les domaines militaire, économique, culturel) de qui il reçoit ses directives et sa raison d’être ; (5) l’alliance indéfectible avec l’Arabie saoudite (principal État terroriste islamique au monde) ; (6) le soutien sans faille au sionisme.

L’Atlantisme, c’est, en effet, un totalitarisme qui définit une liberté encadrée, bornée aux éléments qui ne la remettent pas en cause ; une liberté sans conséquence ; une liberté sans portée contestataire ; une liberté consumériste et libidinale ; une liberté impuissante. C’est une liberté qui nous adresse ce message : « Esclave, fais ce que tu veux, pour autant que tu me baises les pieds et que tu travailles pour moi ».

Il convient, pour juger du caractère totalitaire ou non de l’Atlantisme, de le prendre en bloc et de voir s’il opprime, s’il tue en masse, à un endroit quelconque de cette planète. Il nous importe peu qu’il puisse être tolérable pour des populations entières (les élites occidentales et leurs protégés), s’il doit se rendre terrible et impitoyable pour le reste de l’humanité, sa mansuétude à l’égard de certains ne le rendant pas meilleur ou moins criminel. Ainsi, son ambiguïté est le résultat de la perception que nous pouvons en avoir lorsque nous nous plaçons dans la peau de l’homme blanc Occidental. Car, si nous essayons un instant de nous mettre à la place des Irakiens, des Libyens, des Syriens (parmi tant d’autres), son essence perd son ambiguïté et se révèle pour ce qu’elle est : une puissance criminelle qui pervertit l’humanité et les valeurs démocratiques.*

Portrait du totalitarisme par lui-même

Voyons, à présent, à grands traits et pour nous donner quelques repères, les principales caractéristiques qui nous permettent de dire que l’Atlantisme est bel et bien un totalitarisme.

1. L’Atlantisme est un impérialisme 

“What should that role be? Benevolent global hegemony. Having defeated the « evil empire, » the United States enjoys strategic and ideological predominance. The first objective of U.S. foreign policy should be to preserve and enhance that predominance by strengthening America’s security, supporting its friends, advancing its interests, and standing up for its principles around the world”. Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy, de William Kristol et Robert Kagan, Foreign Affairs, juillet/aout 1996.

C’est une idéologie qui sert un État militarisé (les États-Unis[2]) qui a recours (a) à la terreur - guerres préventives, enlèvement, déportations dans des camps de torture, assassinats extrajudiciaires quotidiens, etc.- (b) à la peur – menace terroriste instrumentalisée auprès de ses populations et (c) aux menaces – de rétorsions économiques contre les États récalcitrants, de guerres tous azimuts, de coups d’États – pour imposer sur la surface du globe sa vision ultra-libérale et pour s’accaparer, par la force létale, les ressources naturelles dont elle pense avoir besoin pour sa domination.

C’est une idéologie au service d’une vision hégémonique de la puissance américaine. Cette dernière revendique son caractère hégémonique : (i) dans le domaine militaire, à travers les think tanks néoconservateurs comme le Project for a New American Century (et sa volonté affichée d’empêcher l’émergence d’une puissance capable de rivaliser avec celle des États-Unis) ou l’American Entreprise Institute et, enfin, à travers sa doctrine militaire officielle intitulée Full Spectrum Dominance ; (ii) dans le domaine économique et financier avec, entre autre, l’imposition du dollar comme monnaie d’échange international ; (iii) dans le domaine culturel, par la mise en place d’un programme de corruption des élites occidentales et internationales à travers, notamment, l’opération Mockingbird[3] dans les années 50 et le National Endowment for Democracy aujourd’hui.

L’Atlantisme, adhère, sans piper mot et comme un bon soldat, à cette projection planétaire d’un ego qui n’est pas le sien. Sans l’Atlantisme la vision hégémonique des États-Unis ne pourrait pas avoir le caractère global qu’elle a aujourd’hui. L’Atlantisme participe pleinement à l’ensemble des crimes commis au nom de cet ego démesuré, soit directement, soit en les justifiant ou en les transfigurant en ‘actions humanitaires’ auprès de ses peuples.

2. L’Atlantisme est un terrorisme 

“À la fin de la guerre froide, une série d’enquêtes judiciaires menées sur de mystérieux actes de terrorisme commis en France contraignit le Premier ministre italien Giulio Andreotti à confirmer l’existence d’une armée secrète en France ainsi que dans d’autres pays d’Europe occidentale membres de l’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord (OTAN). Coordonnée par la section des opérations militaires clandestines de l’OTAN, cette armée secrète avait été mise sur pied par l’Agence centrale de renseignement américaine (CIA) et par les services secrets britanniques (MI6 ou SIS) au lendemain de la seconde guerre mondiale afin de lutter contre le communisme en Europe de l’Ouest.[…] Si l’on en croit les sources secondaires aujourd’hui disponibles, les armées secrètes se sont retrouvées impliquées dans toute une série d’actions terroristes et de violations des droits de l’Homme pour lesquelles elles ont accusé les partis de gauche afin de les discréditer aux yeux des électeurs. Ces opérations, qui visaient à répandre un climat de peur parmi les populations, incluaient des attentats à la bombe dans des trains ou sur des marchés (en France), l’usage systématique de la torture sur les opposants au régime (en Turquie), le soutien aux tentatives de coups d’État de l’extrême droite (en Grèce et en Turquie) et le passage à tabac de groupes d’opposants.” Les Armées secrètes de l’OTAN, Daniele Ganser, Éditions Demi- Lune, page 24.

Des attentats des années de plomb en Italie au conflit en Afghanistan, de la guerre du Kosovo à l’agression contre la Libye et de la déstabilisation de la Syrie à la préparation d’une attaque contre l’Iran[4], le terrorisme est l’un des moyens privilégiés par l’Atlantisme pour l’accomplissement de ses objectifs.

Pour s’imposer à l’Europe de l’après-guerre, l’Atlantisme n’a pas hésité à utiliser la méthode terroriste des attentats sous faux drapeaux : en Italie, par exemple, pour décrédibiliser les forces de gauche les Atlantistes ont posé des bombes, dans les années 60 (attentat de la piazza Fontana à Florence), 70 et 80 (attentat de la gare de Bologne) dans des lieux publics avec l’intention de tuer des innocents. Avec ses relais médiatiques adéquats l’Atlantisme a pu faire passer ces meurtres pour l’œuvre de groupuscules d’extrême gauche et justifier, ainsi, la mise à l’écart de la pensée progressive dans ces pays et assurer le triomphe de leur idéologie.

Aujourd’hui, pour déstabiliser les pays qui contestent l’un de ses six piliers, il instrumentalise à grande échelle, sous l’impulsion des États-Unis, le terrorisme islamique (principalement wahhabito-salafiste) avec l’aide de ses alliés que sont l’Arabie saoudite et le Qatar : en l’a vu à l’œuvre, notamment, en Serbie, en Tchétchénie, en Libye et en Syrie. Il utilise le même levier pour créer des poches de terrorisme qui lui permettent (i) de s’enrichir en vendant des armes et des conseils dans le cadre de la guerre contre le terrorisme, (ii) d’étendre le nombre de ses interventions et bases militaires (celles de l’Otan ou seulement des États-Unis, selon les situations) là où il y voit un intérêt géostratégique et (iii) de donner de la substance à la théorie du choc des civilisations, ce qui lui permet d’obtenir de ses populations l’approbation de ses politiques conquérantes.

Le terrorisme est, plus généralement, au cœur de la doctrine et des stratégies militaires des démocraties occidentales et tout particulièrement de celles des États-Unis (Shock and Awe doctrine) qui les mettent en œuvre, notamment, par l’entremise de l’OTAN (pour plus de détails sur ce sujet, nous renvoyons à un article précédent : Dommages Collatéraux : la face cachée d’un terrorisme d’État).

On le voit bien ici, l’Atlantisme n’est jamais que l’exécutant docile, mais consentant, de l’impérialisme américain à qui il emprunte tous les concepts (guerre contre le terrorisme, choc des civilisations) et les stratégies (instrumentalisation du terrorisme islamique). Quand il le faut (pour gérer son opinion publique interne), l’impérialisme américain laisse aux Atlantistes européens jouer les premiers rôle, mais en apparence seulement, comme en Libye où Nicolas Sarkozy et David Cameron ont rivalisé d’initiatives pour se mettre en avant, alors même que toutes les opérations militaires étaient dirigées, en réalité, par l’armée américaine.

3. L’Atlantisme est un racisme 

“Cette logique du ‘Musulman coupable par nature’, parce que Musulman, est à la base de l’institutionnalisation de la torture par les États-Unis qui peuvent ainsi soumettre à des traitements inhumains des milliers de personnes à travers le monde (Guantanamo n’étant que l’un de ces camps de torture dirigés par l’administration américaine) sur la base d’un simple soupçon de ‘terrorisme’, soupçon qui ne fait l’objet d’aucun contrôle judiciaire. La culpabilité d’un Musulman n’a pas besoin d’être prouvée, elle se déduit de son être même. Il s’agit là d’une forme d’essentialisme, qui est lui-même une forme radicale de racisme”. L’esprit du temps ou l’islamophobie radicale.

Pour justifier sa guerre contre le terrorisme et le choc des civilisations l’Atlantisme stigmatise l’Islam et essentialise le Musulman sous des traits peu flatteurs : le Musulman serait par nature un ennemi des Occidentaux, voire du genre humain, des valeurs démocratiques et de la paix. Une fois essentialisé, il est plus facile d’aller le tuer ; les populations occidentales ne voyant dans les souffrances des Musulmans que les justes châtiments dus à des peuples racailles.

L’islamophobie, le nationalisme pro-occidental et le sionisme – qui est une forme de racisme et d’ethnicisme – sont au cœur de la matrice idéologique atlantiste. Le plus étonnant, sans doute, et le plus inquiétant, est que ces éléments là sont partagés par les élites (et pour partie par les peuples occidentaux) par-delà les clivages politiques droite-gauche. On peut venir à l’islamophobie radicale par des voix opposées : le défenseur de la laïcité y viendra au nom de sa haine des religions, le social-démocrate bobo au nom du féminisme ou de la défense de l’homosexualité ; le conservateur au nom de la protection de ses racines menacées ; le sioniste au nom du droit d’un peuple élu à son espace vital, même si cela doit passer par le nettoyage ethnique d’un autre peuple, etc.

4. L’Atlantisme est un anti-humanisme 

“Depuis 2001, l’Europe a failli à défendre les droits de l’homme sur son propre sol, et s’est rendue complice de graves violations du Droit international au nom de la « guerre au terrorisme ». Des citoyens européens ou étrangers ont été enlevés par les services secrets américains sur le sol européen en dehors de toute disposition légale – ce sont les « extraordinary renditions » – et ont été emmenés dans des prisons secrètes de la CIA dont certaines sont situées dans un pays européen”. ReOpen911.info

Il s’appuie sur le dogme de l’infaillibilité démocratique qui veut que les Occidentaux ne puissent mal agir ni commettre de crimes de masse puisqu’ils représenteraient des sociétés démocratiques ouvertes. Ils sont donc libres de bombarder civils et cibles économiques, d’assassiner des citoyens à travers le monde, de déstabiliser des régimes qui ne leur plaisent pas et, en se faisant, ils ne feront jamais qu’exercer leur droit du meilleur, autre appellation, plus aristocratique, du droit du plus fort. L’autre n’est pas le semblable ou le frère humain ; l’autre c’est l’adversaire, l’ennemi, un être non civilisé, à peine un être. On peut allègrement nier son humanité et le traiter comme une variable géopolitique.

Vaincre ne lui suffit pas, il lui faut déshumaniser, torturer, humilier, violer, dégrader, détruire. Les Atlantistes ont collaboré militairement, économiquement, diplomatiquement, médiatiquement à tous les projets inhumains des États-Unis :  pour s’en tenir à des exemples récents, on pourra citer le camp de torture de Guantanamo (devenu depuis camp d’entraînement de djihadistes au service de l’empire), Abu Ghraib en Irak et l’humiliation des prisonniers, la mort filmée de Kadhafi, les exécutions sommaires (par drones notamment), les enlèvements réalisés par la CIA sur le sol européen (extraordinary rendition) et les dommages collatéraux en Afghanistan, etc.

Dans un autre ordre d’idée, on peut également dire que l’Atlantisme est une aliénation consumériste : l’homme n’est pas sacré ; on peut le tuer pour accomplir des objectifs économiques ou géostratégiques. Cette désacralisation de l’homme qui se fait au profit de la marchandise (dont les marques sont, elles, intouchables) est par essence mortifère. Le profit est plus puissant que l’humanité : en ce qui concerne la France, on pourra évoquer les exemples du scandale du sang contaminé et du Mediator du groupe Servier.

 

Hollande et Jules Ferry

Ce n’est pas un hasard si François Hollande a choisi Jules Ferry comme saint-patron laïque de sa présidence normale. Jules Ferry représente exactement l’idéal atlantiste : l’homme qui est capable d’utiliser la démocratie pour servir les banques et le colonialisme tout en donnant le change au peuple avec quelques concessions sociétales de gauche. Il ne portera jamais atteinte aux piliers de la puissance bancaire et aux capitalistes-colons. Il est conquérant pour les puissants, raciste et a une bonne conscience à toute épreuve malgré les crimes de ses amis partis coloniser les rivages lointains.

 

5. L’Atlantisme est un néo-colonialisme

Si le bras armé de l’Atlantisme est l’Otan, son bras économique est constitué du binome FMI-Banque Mondiale. Ces deux institutions (aux mains des États-Unis et des Européens) ont, pour maintenir les pays en voie de développement dans la dépendance des Occidentaux, utilisé les 3 leviers principaux suivants[5] : (i) l’endettement des États et des peuples[6], (ii) la privatisation de leurs économies et des fonctions régaliennes de l’État au profit des grandes entreprises occidentales (les fameux plans d’ajustement structurels) et (iii) l’ouverture forcée de leurs économies au libre échange et à la concurrence mondiale (alors même qu’ils n’y sont pas préparés et se trouvent vis-à-vis des Occidentaux dans une situation certaine de vulnérabilité).

L’Atlantisme commet des crimes économiques de masse en connaissance de cause pour le profit de quelques élus : en se faisant il démontre son allégeance aux principes de l’ultra-libéralisme prôné par la première puissance mondiale qui subordonne les valeurs humaines au fondamentalisme de marché.*

Pour parvenir à s’imposer l’Atlantisme a besoin (i) de subvertir les souverainetés des nations européennes et (ii) de maîtriser les opinions publiques de ces nations. Il lui faut contourner, affaiblir ou pervertir toutes les composantes démocratiques des sociétés de notre continent pour pouvoir triompher des insoumissions, des doutes, des contestations auxquels il pourrait faire face. Autrement dit, l’Atlantisme s’attaque directement et en profondeur aux fondements de la démocratie des peuples d’Europe à qui il est demandé de suivre aveuglément une idéologie cachée (parce qu’elle est honteuse), innommée (parce qu’elle est innommable) et qui les dépouille de leur souveraineté et de leur libre arbitre. 

L’Atlantisme subvertit les souverainetés nationales 

Sans parler du nombre incalculable de gouvernements démocratiquement élus renversés par les États-Unis avec l’aide directe ou l’approbation tacite de leurs alliés Atlantistes depuis 1945 à travers le monde, et pour se limiter à l’Europe, on peut signaler les cas de la Grèce et de la construction européenne.

En Grèce, aux lendemains de la seconde guerre mondiale, les Britanniques et les États-Unis appuient des mouvements d’extrême droite et d’anciens collaborateurs des Nazis afin d’empêcher la prise de pouvoir légale par les mouvements démocratiques progressistes. Les puissances occidentales atlantistes incitent à la guerre civile qui se solde par la victoire de leurs protégés et par près de 200 000 morts.  Après une évolution démocratique vers la fin des années 60, les Américains, avec l’aide des puissances européennes et grâce à leurs réseaux atlantistes, installent au pouvoir, en 1967, une junte militaire qui proclame le règne de l’ordre moral[7] et la fin de l’ouverture démocratique.

La construction européenne menée par Jean Monnet est avant tout un projet atlantiste. Il y avait bien d’autres manières de conduire la réalisation d’une Europe plus unie. L’Atlantisme a fait le choix de l’impuissance européenne pour ne pas contrarier les ambitions hégémoniques des États-Unis. L’Atlantisme a réduit la souveraineté européenne et mis au pas tous les mouvements indépendants, gaullistes, souverainistes, communistes, qu’ils fussent de gauche ou de droite. Il a imposé ses dirigeants à tous les niveaux de la bureaucratie européenne et à la tête des principaux États de l’Europe qui ont imposé des traités inégaux mêmes lorsque ceux-ci ont été rejetés par les peuples (comme en 2005 avec le Traité constitutionnel).

L’Atlantisme européen a réduit à néant, par étapes successives, l’ensemble des axes de souveraineté dont disposaient les États-nations d’Europe (et donc l’espace démocratique des peuples européens).

Il s’est ainsi attaqué à la souveraineté (i) électorale – le principal organe de décisions est non élu : la Commission ; les traités rejetés par les peuples sont néanmoins imposés ; par la mise à l’écart systématique de la démocratie directe au profit de la démocratie représentative – (ii) monétaire – une banque centrale indépendante des peuples ou de leurs élus qui ne prête pas directement aux États membres qui doivent se financer à des taux plus élevés sur les marchés financiers-, (iii) budgétaire – par l’imposition de la règle d’or et le contrôle des budgets nationaux par une commission composée de technocrates non élus – et (iv) militaire – intégration de l’ensemble des pays européens dans l’Otan.

Le dernier axe de souveraineté auquel l’Atlantisme se soit attaqué est celui de la souveraineté militaire française, la France ayant résisté plus longtemps que les autres nations européennes au rouleau compresseur de l’Atlantisme (ce fut la parenthèse gaulliste). Aujourd’hui les Atlantistes proposent la fusion entre le français EADS et l’anglais BAE afin de retirer à la France le contrôle complet de sa chaîne industrielle d’armement. Demain, ils mettront à mal la dissuasion nucléaire française en s’aidant du prétexte écologique anti-nucléaire.

En France, la mise au pas des non-atlantistes s’est achevée sous la présidence Sarkozy. La diplomatie (avec à sa tête Bernard Kouchner), l’armée, les médias (grâce aux efforts de Christine Ockrent) ont été presque entièrement débarrassés de leurs composantes non altantistes. Hollande, en bon chien de garde de l’Atlantisme, parachèvera l’entreprise.

 

La French-American Foundation et les Atlantico-Boys

La French American Foundation est une organisation à but non lucratif qui se consacre depuis 1976 a dénicher en France les hommes et femmes d’influence qui sont susceptibles de porter les couleurs de l’Atlantisme. 

Quelques anciens Young Leaders de la French American Foundation qui nous gouvernent en ce moment : François Hollande (1996), Arnaud Montebourg (2000), Pierre Moscovici (1996). Dans l’opposition, le plus en vue est Jean-Francois Copé.

Une liste non exhaustive des Atlantico-Boys en France (autres que ceux déjà mentionnés) et de leurs relais : Alain Finkielkraut, André Glucksmann, Bernard Kouchner, Bernard-Henri Lévy, Alexandre Adler, Caroline Fourest, Frédéric Encel, Philippe Val, Francois Heisbourg, Mohamed Sifaoui, Jean-Claude Casanova, Pierre Rosanvallon, Alain Minc, Jean Daniel, Pierre-André Taguieff ; la revue Commentaire, la Fondation Saint Simon (dissoute en 1999), le Cercle de l’Oratoire, l’Institut Turgot, l’Atlantis Institute, les revues Le Meilleur des MondesLa Règle du JeuLe Nouvel ObservateurLe MondeLibération, etc.

 

L’Atlantisme est un contrôle et une manipulation des foules

“The conscious and intelligent manipulation of the organized habits and opinions of the masses is an important element in democratic society. Those who manipulate this unseen mechanism of society constitute an invisible government which is the true ruling power of our country”. Propaganda, par Edward Bernays, 1928. 

“L’Atlantisme a pris naissance au départ de la guerre froide. Dans les années 50, un vaste programme nommé Opération Mockingbird, aujourd’hui bien documenté, a été mis en place par la CIA pour infiltrer les médias nationaux et étrangers, et influencer leurs contenus afin que ces derniers se montrent favorables aux intérêts américains. La méthodologie consistait à placer des rapports rédigés à partir de renseignements fournis par la CIA auprès de journalistes conscients ou inconscients de cette manœuvre. Ces informations étaient ensuite relayées par ces journalistes et par les agences de presse.” ; 11-Septembre : de la misère journalistique à la logique de collabos, de Lalo Vespera, ReOpen911.info

Sans la collaboration des médias, il ne serait possible à l’Atlantisme d’imposer ses fondamentaux dans l’esprit de l’opinion publique. Les médias font partie intégrante de la machine de guerre atlantiste. Pour créer le consentement et l’unanimisme dans une société ouverte il convient de maîtriser la production de l’information. Pour cela il est nécessaire de mettre à la tête des principaux médias des serviteurs zélés de l’Atlantisme. En France, dans le secteur privé des médias, seuls quelques grands groupes industriels appartenant à la nébuleuse oligarchique sont aux commandes (des vendeurs d’armes et des industriels qui vivent en partie grâce aux commandes de l’État) : il est naturel chez eux de servir les intérêts du plus fort (la période de la collaboration avec les Nazis est là pour nous le rappeler[8]). Dans le secteur public, le Président de la République ou ses fondés de pouvoirs choisissent leurs courroies de transmission humaines qui insuffleront l’esprit de soumission dans les rouages de la machine à désinformer.

Les pourvoyeurs de l’information commettent des crimes médiatiques lorsqu’ils se font les relais pur et simple de la propagande atlantiste, comme nous l’avons vu lors de la guerre contre la Serbie, de l’invasion de l’Afghanistan et du bombardement de la Libye par l’Otan, de la guerre en Irak, de la déstabilisation de la Syrie (toujours par l’Otan) ou comme nous le constatons à propos du nettoyage ethnique continu dont sont victimes les Palestiniens. Dans chacun de ces cas, les médias cautionnent les explications officielles, leur donnent force et crédibilité, mettent en avant des intentions humanitaires, alors même qu’elles recouvrent des crimes qui devraient soulever notre indignation et aboutir à la mise en cause judiciaire et politique de leurs principaux responsables.

Le tabou créé autour du 11-Septembre est symptomatique de la manière dont s’échafaude l’unanimisme dans une société où la liberté d’expression et la diversité des points de vue sont sensées régner. On démonise les questionneurs, on pourchasse les têtes brûlées, on les rend responsables des pires crimes du siècle dernier, on les ridiculise. On plante dans l’opinion publique des barrières psychologiques infranchissables (à travers, notamment, les accusations d’antisémitisme, de négationnisme et de révisionnisme) pour que la conscience citoyenne n’aille pas voir ce qu’il y a derrière ; on érige des murs dans les esprits pour enfermer leur consentement dans le champ des possibles atlantistes.

Il y a une forme d’intolérance radicale face à la pensée alternative maintenue enfermée dans le Web. Cette intolérance est radicale en ce sens qu’elle stigmatise les déviants et tente d’en faire des parias à mettre au ban de la société et qu’elle parvient à fermer presque totalement l’accès aux grands médias qui comptent à la pensée dissidente lorsqu’il s’agit d’évoquer et de discuter les fondamentaux de l’Atlantisme.

 

La psyché des Européens au service de l’Atlantisme

« Les Européens ne se sont toujours pas libérés psychologiquement de l’état de dépendance dans lequel ils se sont laissé prendre au sortir de la seconde guerre mondiale. Sous le prétexte que les États-Unis sont venus libérer les Européens il y a plus de 60 ans, il faudrait aujourd’hui que ces derniers abandonnent toute volonté d’indépendance, toute aspiration à choisir un modèle de développement alternatif. Il n’y a aucune logique dans une telle attitude. Faudrait-il que les États-Unis soient éternellement soumis à la France au prétexte que c’est grâce aux armes, aux finances et, en définitive, à la flotte de Louis XVI[9] que les Américains ont pu obtenir leur indépendance de l’Angleterre ? Que les Européens soient reconnaissants pour l’implication des États-Unis dans les deux Guerres Mondiales, cela est normal et bienheureux. Comme il est normal, également, que les Américains soient reconnaissant à l’égard de la France pour le soutien que ce pays leur a apporté à un moment décisif de leur histoire[10]. Mais la reconnaissance ne doit pas déboucher sur la dépendance et la vassalité. Est-il sain que les élites européennes se laissent maintenir dans cette dépendance ou ne cherchent tout simplement pas à la contrer ? Le simple respect de soi-même devrait suffire pour que chacun refuse de se considérer comme le sujet d’une autre personne. Accepter de se soumettre est une attitude morale et psychologique pernicieuse et humiliante. Il y a, en effet, une certaine humiliation à se laisser ainsi dicter son mode de vie et à aller chercher en permanence ses références culturelles, politiques, économiques outre-atlantique sans véritablement questionner leurs valeurs et leurs bienfaits. », La Démocratie ambiguë.*

Conclure pour en finir

Il ne s’agit là que d’un florilège de caractéristiques atlantistes fort incomplet, mais dont les principaux traits nous semblent dresser, à eux seuls, le portrait d’un totalitarisme contemporain non moins dangereux et effrayant que ses prédécesseurs. Qu’il s’invente un ennemi réel ou imaginaire, ou un ennemi qui devient réel à force d’être imaginé (et souhaité), on ne peut excuser les crimes de l’Atlantisme sous le prétexte fallacieux que son alter ego dans le mal (l’islamisme radical) en commettrait également ou que son modèle (le totalitarisme impérial de son maître) lui intimerait l’ordre de les perpétrer. L’Atlantisme a besoin du crime de l’autre pour commettre le sien en toute impunité et avec bonne conscience.

Au bout de sa logique, il y a la mort des autres, la guerre généralisée, la misère du plus grand nombre. L’Atlantisme est bel et bien une idéologie génocidaire, au même titre que l’impérialisme américain. Caractérisation exagérée qui décrédibilise celui qui l’utilise diront certains ? Galvaudage d’un crime qu’on ne peut évoquer à la légère diront d’autres ? Posons-nous alors cette simple question :combien de morts et de souffrances à son crédit (comme auteur ou complice) ? La réponse de l’historien est sans détour : des millions de victimes depuis la fin de la seconde guerre mondiale ; des millions depuis la chute du mur de Berlin[11] et un long fleuve d’ombres, de sang et de souffrances qui ne cessent de couler sur tous les continents.

La lutte contre l’Atlantisme est la grande aventure humaine de ce début de siècle pour nous autres Européens. À chacun d’y prendre part selon ses moyens et ses autres croyances. Que l’on croit au ciel ou que l’on n’y croit pas, que l’on soit misérable ou fortuné, d’ici ou d’ailleurs, chacun peut jouer sa partition dans le combat contre la fatalité de l’Atlantisme qui traînera avec elle, si cela est nécessaire à son triomphe, les cadavres de la démocratie et de la paix jusqu’aux charniers du capitalisme. Le combat contre l’Atlantisme est un humanisme.

Guillaume de Rouville


[1] Les paroles des minorités alternatives sont rarement des faits au sens ou ceux-ci pourraient changer le cours des choses.

[2] Les États-Unis ont un budget militaire annuel équivalent à celui des autres pays combinés.

[3] Voir infra.

[4] En septembre 2012, les États-Unis ont retiré de leur liste des entités considérées comme terroristes l’organisation dissidente iranienne Moudjahidin-e Khalk (MEK) qui perpétue régulièrement des attentats sur le sol iranien.

[5] L’Europe tente, notamment, d’imposer cela à travers ces Accords de Partenariat Économique.

[6] Pour les peuples, par le développement incontrôlé de la microfinance.

[7] À ce sujet voir le film de Costa Gavras : Z.

[8]  Voir : “Le Choix de la Défaite”, d’Annie Lacroix-Riz, Éditions Armand Colin, 2010.

[9] C’est grâce à l’appui décisif de la flotte française, dirigée par le Comte de Rochambeau, que les États-Unis remporteront la bataille de Yorktown en 1781, tournant majeur de la Guerre d’Indépendance.

[10] Lors de la Guerre d’Indépendance des États-Unis contre la Grande-Bretagne, entre 1775 et 1783.

[11] À titre d’exemples : le génocide des indigènes au Guatemala après le coup d’État de 1954 ; l’embargo sur l’Irak qui tua des centaines de milliers d’enfants sur une période de 10 ans ; le dépeçage du Congo depuis plus de 15 ans avec l’aide des grands groupes occidentaux qui a, jusqu’à présent, coûté la vie à près de 4 millions de civils).

mercredi, 10 octobre 2012

A Concepção Sagrada dos Espaços

A Concepção Sagrada dos Espaços

por Orazio M. Gnerre

Ex: http://legio-victrix.blogspot.be/ 



Texto da palestra de Orazio Gnerre, do Instituto Millenium, no IIIº Encontro Nacional Evoliano em João Pessoa.

Boa noite à todos,

Com a permissão do público e do professor Dugin, começarei.

Nós definimos o tema que escolhemos para a nossa discussão, "a concepção do espaço sagrado." Como você bem sabe, a escola de pensamento do tradicionalismo integrante baseia-se sobre um determinado assunto: os conceitos polares opostos subjacentes à abordagem dialética da realidade humana são dois simetricamente opostos - Tradição e Modernidade. Por Tradição compreendemos de modo geral a abordagem do "sagrado" ao real, uma leitura simbólica da mesma que, trabalhando com o que Carl Schmitt chamou de "catolicismo romano e forma política" princípio da representação, consideraremos o plano como um reflexo do mundo imanente transcendente, como expresso sistematicamente pela filosofia platônica. É um erro, porém definir o conservadorismo como um ramo da filosofia derivada do idealismo platônico porque, em sua visão ortodoxa, é considerada a ciência que estuda a manifestação do Uno pré-existente imanente - uma revelação eterna - e as estradas a fim de acessar sua experiência direta. A abordagem tradicional também pode ser definida cosmologicamente. A modernidade é a ruptura drástica com a concepção de existência simbólica e espiritual: a chave para o que não é mais cosmológico, como é na concepção tradicional, e sim mecânico. Se o pensamento tradicional é generalizante, representante, universalizante e essencialmente metafísico, o pensamento moderno, como seu oposto radical, manifesta-se como fragmentado, mecanicista e potencialmente niilista. Digo "basicamente" niilista porque, no desenrolar do fenômeno moderno, não esgota as possibilidades (ou pelo menos, não tivemos a oportunidade de conhecer este evento), mas aprofunda-se, expandindo sua influência e aumentando o grau de entropia que contém, provando ser o tempo da grande confusão prevista por René Guénon. Mais do que um sociólogo, incluindo Jedlowsky, advertiu-nos o fato de que a suposta pós-modernidade não é outra coisa senão o fenômeno moderno que é o apenas aparentemente negar a si mesmo, ele se quebra e se expande, criando uma nuvem de "modernidade diversas", e, aparentemente contrário ao contrário, de fato, todos os participantes do mesmo projeto e relativista perspectivista que, em aparente oposição ao primeiro evento universalista e racionalista da modernidade, na verdade, partes da natureza e cartesiana subjetivista. O professor Dugin, em seu discurso na conferência internacional de Moscou "Contra o mundo pós-moderno", tem bem definida a pós-modernidade como a queda da modernidade, então a expansão, a hipertrofia do princípio da quantidade que caracteriza a própria modernidade. Também o professor Dugin tem repetidamente salientou a necessidade de uma restauração da categoria filosófica do objetivismo, em oposição à natureza subjetivista da modernidade: na verdade ele não é o único que viu no universalismo marxista e no objetivismo (assim como na derrubada da manifestação idealista tripartite do Espírito) a continuação de categorias clássicas e tradicionais de pensamento. Cito neste caso o filósofo italiano Costanzo Preve que, em conjunto com Domenico Losurdo, representam a aresta de corte efectivo da Europa neomarxista. 

 

Se, como já dissemos, Tradição e Modernidade se opõem totalmente (e não dialeticamente), aqui é que ambos se projetam de cada fenômeno, porque, na verdade, são duas chaves reais para a leitura totalizante. É evidente, portanto, que deve haver um "sagrado" (tradicional e religioso) e "profano" (moderno e niilista), mesmo com o conceito de espaço, a importância de lugares, a interpretação providencial de áreas geográficas. O principal trabalho a que deve ser feita referência quando se trata desta diferença de abordagem é "O sagrado e o profano", texto esclarecedor do historiador romeno de religiões, famoso por ser ligado ao movimento da Legião do Miguel Arcanjo, professor, então, University, em Chicago, Mircea Eliade. Em seu texto explicativo, ele salienta as diferenças irreprimíveis que existem entre um homem religioso e secular, entre um homem e um homem da tradição da modernidade, na consideração do tempo, da vida, e lugares. Especialmente este último tema é que nos interessa em particular.

 

 

Eliade parte de um pressuposto geral, que é a base da consideração do fator espaço do homem religioso, o homem da Tradição: o mundo não é real. Neste sentido, a única coisa que o homem tradicional via como real, no entanto, era o Sagrado. A objetividade hegemônica do sagrado era aquele pelo qual o homem pudesse fazer o mundo real. O homem tradicional foi o vencedor real do mundo, o verdadeiro governante dos elementos (como ele era, interiorizados no pentagrama, que milênios mais tarde tornou-se o símbolo do Império Soviético sacral), como o filho dos deuses. O antropocentrismo tradicional, longe de ser semelhante ao do Iluminismo, ao contrário do último reconheceu a primazia do sagrado, como a única verdade incontestável. Como para os seres humanos, também criados devem ser realizados, "tornar-se o que você é", afirmando que o neoplatônico Santo Agostinho chamou "o poder" - estar no poder. E ele foi o homem, na verdade, o "Subcreator" (nas palavras de John Ronald Reuel Tolkien) que consagrou lugares, fez-se sagrado, tornando o domínio do Ser brilhante, e participando da criação de Deus também na concepção agostiniana, na verdade, a única coisa que se possa imaginar está sendo a adesão (que é a revelação do Santo), onde o mal é profundo como forte é a sua separação. Mesmo hoje, arar a terra perpetuamente consagrada ao Divino de nossos pais, cujos espíritos, anjos e santos padroeiros intercedem porque não afundam no abismo da não-existência. A perene conquista do Mundo do homem tradicional, então passou através da socialização do próprio mundo. O desenvolvimento desta verdade metafísica foi implementada após a revelação de Cristo, no ideal de evangelização ou Jihad. Útil a este respeito é lembrar que, para o homem tradicional, sendo o mundo espiritual mais importante e mais "real" do que o material, a primeira batalha era travada arduamente para conquistar a nível interno, uma luta até a morte pelo assassinato de seu Ego: esse foi o simbolismo de que também tratava o Barão Julius Evola, a que esta reunião é dedicada, a Grande Guerra Santa (para São Bernardo de Claraval, um dos grandes mestres do monasticismo ocidental, que são inspirados pelos cistercienses e trapistas) ou o Grande Jihad (o profeta Maomé). A corrida espacial foi qualitativamente inferior à horizontal para vertical, a conquista de seu microcosmo, a sua transferência sobre o domínio de si mesmo do indivíduo: a sacralização de si mesmo. Como o Buda disse: ". Entre aquele que vence na batalha mil vezes mil inimigos, e apenas aquele que vence a si mesmo, este é o melhor dos vencedores de cada batalha" . Qualitativamente inferior, mas não menos importante, a conquista horizontal, que Eliade identifica com o landname da tradição germânica, foi o processo pelo qual o homem subtraíu lugares no domínio da água, sem forma, do escuro, para render-se ao domínio da forma, da terra, e da luz. Igualmente Eliade considerava que estes dois princípios arquetípicos existem não apenas no plano horizontal, mas também sobre o eixo vertical. O nível horizontal é expresso pelo conceito axis mundi, o eixo do mundo, o centro radical da realidade. É importante que o eixo do mundo é único para si mesmo, ou localizado em um lugar (poderia realmente existir ...) que pode ser verdadeiramente chamado de centro de todo o mundo. No Mundo da Tradição tudo é relativo e tudo é absoluto, porque é o completo domínio do símbolo. É no templo que o homem tradicional no centro de seu mundo, que é o templo axis mundi. Não poderia ser de outra forma, para todos aqueles que vivem na orientação ao Sagrado: O templo é o seu ponto de referência, como um lugar de encontro entre a terra e os céus. Mas o templo, sendo o eixo do mundo, não só tem o valor de Scala Coeli, a Escada aos Céus: ele também ligou o homem à polaridade oposta, o mundo do informe, as águas primordiais. Esta é a ambivalência simbólica entre os pináculos das igrejas e suas criptas. O templo é de forma que, ao mesmo tempo, permite que você suba ao céu e retenha a água. É uma função mística e exorcista.

É interessante ver que todos estes arquétipos tradicionais nós podemos encontrar também em um pensador substancialmente “laico”, embora pessoalmente muito religioso. Falamos do já mencionado católico alemão Carl Schmitt, uma das mentes mais agudas do século passado, a quem o estudo do direito e mesmo da geopolítica devem muito. Ele abordou o problema espacial/territorial em duas obras suas, que lembramos serem “O Nomos da Terra” e “Terra e Mar”, este último escrito na forma de conto. Ele identificava duas fases da história da Civilização, que chamava respectivamente terrestre e marítima, e que nós podemos associar facilmente ao Mundo da Tradição e o da Modernidade. Segundo Schmitt estas duas concepções não estão ligadas somente a limites históricos, mas também a vínculos territoriais. Este é o motivo pelo qual a concepção terrestre está estritamente ligada ao bloco continental europeu e asiático, enquanto a marítima remete à Grande Ilha, a anglosfera que define o bloco anglo-americano. A primeira concepção, a terrestre, é ligada substancialmente aos princípios tradicionais do Sagrado (que em sentido político, se transpõem na comunidade orgânica, na hierarquia, na legitimidade, e no domínio da Forma e da Política), a segunda ao invés prova ser a manifestação do profano (nas suas expressões sociais de individualismo, igualitarismo, no domínio do informe e na ausência da norma). É aqui que se demonstra claramente o quanto a contraposição da Terra consagrada e da Água está presente também no pensamento de Schmitt. Não é casual que a manifestação da modernidade ocorra gradualmente, por meio da descoberta progressiva do novo mundo. Este é um argumento que tem sido aprofundado, partindo da geografia sagrada, pelo professor Dugin, e disso falaremos mais tarde. A Norma se demonstra em Schmitt com a legítima apropriação do território por parte de uma comunidade humana, que acaba sendo precisamente a consagração da mesma: é aqui que retorna o conceito já citado de landname. O landname é válido, porém somente na estabilidade: é a estabilidade que garante a legitimidade da norma (pelo mesmo motivo pelo qual o não se ater ao ordenamento jurídico pré-existente durante uma revolução política não é considerado ilegítimo). É assim que o landname só possui sentido na perspectiva terrestre. Um dos personagens pelos quaiso pensador alemão foi mais influenciados foi o nobre espanhol Donoso Cortés, herdeiro do que foi o último baluarte contra o avanço do poder marítimo anglo-saxão, a Santa Espanha Católica. Cortés, diplomata europeu de imenso calibre, homem político sem igual e agudo pensador, conhecia bem a realidade das revoluções igualitárias de 1848 e os ambientes da Restauração, considerando que entreteve também uma correspondência com o chanceler Metternich. Nele, feroz opositor da deriva anárquica europeia, Schmitt vê o defensor por excelência da Norma, da Lei. Como Schmitt, também Cortés também estava a procura daqueles que poderiam deter o avanço do anticristo, o processo de decadência total, o kat-echon, um papel que na tradição russa é preenchido pelo Imperador, e ele o identificou (com ou sem razão) em Napoleão III. O próprio Cortés define a Inglaterra como “a Grande Meretriz” (ou seja, Babilônia), que, como é sabido, na simbologia apocalíptica indica a mãe do Anticristo. Schmitt destaca várias vezes, em “Terra e Mar”, a natureza genealógica que liga o Império Britânico aos Estados Unidos da América. A conexão resulta então muito simples, em pleno acordo com todos os movimentos de resistência à Nova Ordem Mundial, que veem nos EUA “o Grande Satã”. Na Itália há dois livros dedicados ao ensinamento antimundialista que se pode tirar do Barão Evola, um de Carlo Terracciano, conhecido e amigo do Professor Dugin, e o outro de Pietro Carini. A lição de Cortés, entre outras coisas, está ligada profundamente à obra majestosa do primeiro opositor da Revolução Francesa (etapa central do processo subversivo na Europa), Joseph de Maistre, embaixador da Savóia junto ao czar. Ele e seu irmão Xavier se comprometeram firmemente ao lado da Rússia na luta contra o jacobinismo, um no sentido político, o outro no sentido militar.

 

 

Na abordagem sacra ao estudo dos espaços, não é possível deixar de recordar o papel desempenhado pelo presente professor Aleksandr Dugin, uma importante mente de nosso século, que abarca da geopolítica à filosofia, da sociologia à metafísica. Ele, como bem explica em muitos dos seus textos, está profundamente empenhado em difundir através de suas obras o elo estreito e direto que existe entre a geopolítica e a geografia sagrada, partindo especialmente das teorias do geopolítico alemão Karl Haushofer, que, sob a guarda do alpinista e estrategista britânico Mackinder, teorizava a integração política e militar do bloco continental europeu e asiático (que ele chamou de Heartland – Coração da Terra), contra a integração igual e oposta da World-Island (a Ilha-Mundo anglo-americana). Não definindo com o termo guenoniano de “ciência sagrada” a geopolítica, o professor Dugin a enquadra no âmbito daquelas pseudo-ciências que, por não terem sido completamente racionalizadas, e preservando ainda um alto nível de generalizações, manteve vivos, ainda que inconscientemente, aqueles arquétipos tradicionais dos quais estamos tratando. Em seu texto “Da Geografia Sagrada à Geopolítica”, cujas teses confluíram sucessivamente no “Paradigma do Fim”, o professor indaga antes de tudo o significado simbólico dos pontos cardeais na contraposição geopolítica “leste-oeste” e sociológica “norte-sul”. Leste e Oeste, na dialética geopolítica do mundo bipolar, constituía claramente o binômio da contraposição mundial da guerra Fria, bem como dois modelos diferentes de abordagem da vida. Se de um lado o Leste representava a “geométrica ordem prussiana” socialista, o Oeste simbolizava ao contrário o modelo hedonista do capitalismo desenfreado. Com a queda da contraposição dos blocos, e a transição pouco estável ao mundo unipolar, essa diferença não tem sido aplacada, de fato, ela foi radicalizada. Se bem que aparentemente também o Leste do mundo tem sido influenciado pelos dogmas modernos do progresso e do crescimento econômico exponencial, não podemos deixar de notar como nele estão ressurgindo (acima de tudo graças à parcial independência geopolítica de que pode desfrutar) os modelos culturais fundamentais para uma restauração integral. A oposição Leste-Oeste, no pensamento duginiano, se revela como a manifestação da contraposição do Oriente e do Ocidente metafísicos, ou melhor, simbólicos: a eterna ambivalência do apolíneo nascer do Sol e de sua descida nas Águas ocidentais. Os termos do desafio entre os dois pólos se tornam a Ascensão e a Queda, o Nascimento e a Morte, Criação e Dissolução. Em vários textos o professor se ocupou também do significado simbólico do centro geográfico que animam este desafio titânico dos continentes. Em dois de seus trabalhos, publicados na Itália no volume “Continente Rússia”, editado em 1991, ele diz limpidamente como, em uma perspectiva sacral e simbólica, a Sibéria – centro do Continente – coincide em realidade com a Hiperbórea, e a América do Norte se corresponde ao invés com a mitológica Ilha dos Mortos, a “terra verde”, da mitologia egípcia, a segunda Atlântida, o local das práticas obscenas de cultos orgiásticos. A segunda contraposição polar se identifica ao invés com Norte e Sul que, em uma concepção profana de sublevação, representam a parte rica e a pobre do globo, Primeiro e Terceiro Mundo. Nós todos conhecemos o simbolismo que na vasta literatura tradicional permeia os Pólos, especialmente o Norte. O Norte, ponto superior do Eixo do Mundo, nada mais é que o ápice solar. O Norte representa a superabundância de riqueza espiritual, o estágio último da Ascese. O Sul (de um ponto de vista simbólico e não meramente geográfico representa o contrário. A mentalidade profana, que em tudo opera a derrubada satânica dos significados, imanentizando esta contraposição em um sentido puramente geográfico, a preencheu com o significado de riqueza e pobreza materiais. Na concepção tradicional o nórdico é aquele que retorna ao gelo, aquele que perde o elemento passional e egoístico “demasiado humano” e que transcende a dimensão humana pela heroica. Já o racismo branco anglo-saxão ou pan-germanista, levado ao ápice político pelo Império Britânico em sua escana colonial global, e pelo hitlerismo ideológico ao nível europeu, demonstrava os elementos fundamentais dessa inversão demoníaca, ainda que preservando, no segundo caso, alguns elementos simbólicos da Tradição. O próprio Barão Evola escreveu muito sobre a necessidade de formar e criar uma raça do espírito, uma elite de aristocratas do espírito. O neopaganismo hitlerista, ao qual o orientalista, historiador das religiões e ex-tenente da SS italiana Pio Filippani Ronconi deu a alcunha de “contra-iniciático”, transpôs tudo a um plano biológico, invertendo o problema.

 

Em nossa opinião, também a cessão do Alasca polar por parte da Rússia aos Estados Unidos, no século XIX, representa um passo em direção à queda do Oriente do Norte espiritual. Não se há de duvidar do fato de que, se o Alasca tivesse permanecido nas mãos do Império Russo, o movimento bolchevique, fortificado no Gelo Eterno, teria empurrados suas hordas aos próprios portões da Pátria do Capitalismo. A sorte histórica seguramente teria sido diversa. No entanto, “os caminhos do Senhor são infinitos”, e Ele opera de maneiras misteriosas.

A ideologia eurasiática revivida pelo professor Dugin, e adaptada ao contexto pós-soviético, representa um destes modelos culturais alternativos, radicalmente verdadeiros, com os quais combater arduamente a Decadência iminente, para ataca-la em seu coração, nas suas contradições mais profundas, e superá-la gloriosamente. Não há dúvida de que as ações do antimoderno atingirão o seu objetivo porque, como dito pelo Para Urbano II durante o Concílio de Clermont: “Deus vult!” – Deus o quer. A Eurásia-Rússia, perfeito centro do Continente, da Heartland, representa hoje um farol de esperança para o Oriente e para o Sul do Mundo, para os europeus orgulhosos de suas próprias tradições e não alinhados ao unipolarismo estadounidense, não só geopolítico, mas também cultural, e para todos os Povos livres que sofreram o martírio por parte dos emissários da Decadência. Penso, neste momento, no heroico povo sírio, uma cidadela de Luz, onde os filhos de Deus xiitas, católicos e ortodoxos estão lutando tenazmente contra as hordas inimigas. A Eurásia, núcleo de reconciliação dos polos, porta do templo de Jano, que se abre para gerar a Unidade do real, se mostra como o Eixo do Mundo global, o templo geográfico, o ponto de partida para o landname total, a sacralização completa do Mundo, a Era do Espírito de Joaquim de Fiore, o Reino do Ar de Carl Schmitt, a terceira concepção espacial.

AMEN.

Tradução por Raphael Machado e Álvaro Hauschild

lundi, 08 octobre 2012

Völkerrecht oder Gesinnungsjustiz?

Völkerrecht oder Gesinnungsjustiz?

Wie die Justiz in der EU Erinnerungen dekretiert und ihrem Neo-Kolonialismus Flankenschutz gibt – zum neuen Buch von Hannes Hofbauer

von Tobias Salander

Ex: http://www.zeit-fragen.ch/

100862~1.JPGWem würde die geneigte Leserschaft die Beantwortung von Fragen zur Einschätzung historischer Abläufe gerne anvertrauen? Poli­tikern? Solchen rechter Ausrichtung? Oder linker? Oder Geistlichen? Christlicher, muslimischer, jüdischer, hinduistischer oder anderer Herkunft? Oder Europäern? Oder lieber Asiaten oder Afrikanern? Deutschen oder Franzosen, Rumänen oder Portugiesen? Senegalesen oder Kongolesen, Marokkanern oder Südafrikanern? Palästinensern oder Israeli? Wahabbiten, Schiiten oder der Nato? China oder Russ­land? – Oder? Vielleicht doch eher der Sache und nur der Sache, also den Quellen verpflichteten Historikern, die offen sind für neue Befunde, polyperspektivisch und quellen- und ideologiekritisch vorgehen, also Interessen hinter Sachverhalten aufspüren und offenlegen – dem humanistischen und aufklärerischen Ethos verbundenen Wissenschaftern?


Nun die Fragen: Waren die Kreuzzüge ein Völkermord? Die Ausrottung der amerikanischen Urbevölkerung und die Verschleppung von Millionen von Afrikanern als Sklaven in die Neue Welt – der grösste Genozid aller Zeiten? Wie ist der Aufstand in der Vendée während der Französischen Revolution einzuschätzen? Was hat sich 1898 wirklich auf dem US-Schlachtschiff «Maine» ereignet? Welches sind die Hintergründe des Schusses von Sarajewo 1914? Und des Massenmordes an den Armeniern im Ersten Weltkrieg? Wer verhalf Lenin zu seiner komfortablen Zugsreise nach St. Petersburg? Wer zündete den Reichstag an? Was geschah in Katyn? Warum bombardierten die Alliierten die Schienenwege nach Auschwitz nicht? Warum wurden die Atombomben auf Hiroshima und Nagasaki abgeworfen? Was geschah 1956 in Ungarn wirklich? Und was im Golf von Tongking? Was, wenn Operation Northwoods von Präsident John F. Kennedy nicht als unmoralisch zurückgewiesen worden wäre? Wer griff die USS «Enterprise» an? Was bedeuten die Stasi-Verbindungen des Mörders von Benno Ohnesorg? Wodurch unterschieden sich die RAF-Terroristen der ersten und der vierten Generation? Wer steckte hinter den Terroranschlägen in Italien in den 70er und 80er Jahren? War Gladio eine Widerstandsgruppe oder eine Terrororganisation? Der Blutsonntag von Vilnius vom 13. Januar 1991 – ein neues Auschwitz? Wer steckt hinter dem «Brotschlangen»-Massaker in Sarajewo? Und hinter dem Massaker in Srebrenica? Was spielte sich in Darfur ab? Sind die Verbrechen im kommunistischen Europa gleichbedeutend mit den Verbrechen der Nazi-Diktatur? War Miloševic der neue Hitler? Wie sind die Ungereimtheiten beim Einsturz von WTC 7 am Abend des 11. Septembers 2001 zu erklären? Hatte Saddam die Atombombe?

Wozu braucht die EU das Orwellsche «Richtig-Denk»?

Fragen über Fragen, mit denen sich jeder Schüler im Laufe seiner Schulzeit auseinandersetzen muss. Und woher erhält er die Antworten oder zumindest Ansätze von Antworten oder gar das Eingeständnis, die Frage könne derzeit nicht beantwortet werden? Durch den Geschichtslehrer, der bemüht ist, den Stand der Forschung zusammenzutragen und oft darauf hinweisen muss, diese oder jene Frage sei noch nicht zu klären, da die Archive noch nicht offen seien, die Dokumente einer Sperrfrist unterliegen oder nicht mehr vorhanden sind?

Wer dies denkt, dass die Klärung von historischen Fragen ein offener Prozess sei, dass in einer Demokratie Wahrheit stets errungen werden und strenger wissenschaftlicher Prüfung standhalten muss, immer offen für Korrekturen bei neu auftauchenden Quellen und Sachverhalten, sieht sich durch gewisse Abläufe der letzten Jahre innerhalb der EU eines besseren belehrt. Was in den USA (derzeit noch?) undenkbar wäre und die gross­artige Arbeit zum Beispiel eines investigativen Journalisten wie Seymour Hersh verunmöglichen würde (Aufdeckung der wahren Hintergründe des Massakers von My Lay, der Skandale um Abu Ghraib und US-Soldaten in Afghanistan etc. etc.), nimmt in der EU immer krassere Formen an: Immer häufiger ersetzen dort nämlich seit einem entsprechenden EU-Rahmenbeschluss aus dem Jahre 2008 Gerichtsurteile die Forschung und halten unter Strafandrohung fest, wie gewisse Ereignisse zu sehen seien. Wer diese Richtersprüche nicht zur Kenntnis nimmt, weiter forscht, sie auf Grund einschlägiger Erfahrungen mit bereits aufgedeckten False-Flag-Operations, Kriegslügen und Propaganda anzweifelt und Gegenhypothesen aufstellen will, sieht sich unvermittelt vor dem Kadi und zu Gefängnis oder einer hohen Geldstrafe verurteilt. Ob dieses obrigkeitlich verordnete Orwellsche «Richtig-Denk» die enormen Demokratiedefizite der EU kaschieren soll oder ob der juristische Griff auf laufende Auseinandersetzungen wie im Balkan der 90er Jahre, wo die EU und die Nato einen völkerrechtswidrigen Angriffskrieg führten, als Flankenschutz diente – oder ob die EU gar Grosskonzernen, welche die EU-Kommission nach Belieben dirigieren, bei der Übernahme neuer Märkte Schützenhilfe leistet, mithin also neokolonialistisches Gebaren juristisch absegnet – all diesen Fragen geht das kürzlich erschienene, sorgfältig recherchierte Bändchen von Hannes Hofbauer nach. Es trägt den Titel «Verordnete Wahrheit, bestrafte Gesinnung – Rechtsprechung als politisches Instrument». Hofbauer ist Wirtschaftshistoriker und Publizist und Kenner der EU, insbesondere von deren Ost-Erweiterung, die er schon in früheren Arbeiten als «Rückkehr des Kolonialismus» bezeichnete – man denke nur an das absolutistisch anmutende Gebaren der «Hohen Repräsentanten» in Bosnien-Herzegowina, die zwar von der Uno eingesetzt sind, aber zugleich als EU-Sonderbeauftragte fungieren.

Was in der Uno-Konvention zum Völkermord steht

Völkermord ist wohl das schlimmste Verbrechen, welches die Menschheitsgeschichte kennt. Wie viele Dutzend Millionen Menschen solchen Verbrechen zum Opfer gefallen sind, darüber streiten sich die Historiker. Doch was versteht man genau unter Völkermord? Gemäss der Konvention der Uno vom 9. Dezember 1948 mit dem Titel «Verhütung und Bestrafung von Völkermord» fallen alle Handlungen darunter, die in der Absicht begangen wurden, «eine nationale, ethnische oder religiöse Gruppe als solche ganz oder teilweise zu vernichten: a) die Tötung von Mitgliedern einer Gruppe, b) die Verursachung von schwerem körperlichem oder geistigem Schaden an Mitgliedern der Gruppe, c) die vorsätzliche Auferlegung von Lebensbedingungen, die geeignet sind, ihre körperliche Vernichtung ganz oder teilweise herbeizuführen, d) die Verhängung von Mass­nahmen, die auf Geburtenverhinderung innerhalb der Gruppe gerichtet sind, e) die gewaltsame Überführung von Kindern der Gruppe in eine andere Gruppe.» (zit. nach Hofbauer, S. 27)
Entscheidend für die Tat ist nicht die Zahl der dem Morden zum Opfer gefallenen Menschen, sondern der politisch oder religiös motivierte Wille, diese Menschen zu ermorden bzw. ihre Lebensgrundlage zu zerstören.

Zwei Strafgesetze – zwei historische Wahrheiten?

Doch wer definiert nun, wann ein Verbrechen als Völkermord eingestuft werden muss? Welche Gerichte sind dafür zuständig, und welche Rolle spielen bei den Entscheiden zeitgeschichtliche oder gar geopolitische Hintergründe? Hofbauer: «Wer masst sich den Richterspruch über historische Ereignisse an, der zu einem Leugnungsverbot mit Aussicht auf Gefängnisstrafe führt? Nationale Gerichte? Der Internationale Gerichtshof in Den Haag?» Um in die Problematik einzuführen, schreibt Hofbauer im Vorwort: «Leugnung und Verharmlosung von per Gerichtsbeschluss als Völkermord, Verbrechen gegen die Menschheit oder Kriegsverbrechen dekretierten Untaten werden in immer mehr Fällen und in immer mehr Ländern strafbar. So ist ein laut geäusserter Zweifel am Völkermord in Srebrenica seit einem entsprechenden EU-Rahmenbeschluss aus dem Jahr 2008 in der gesamten Europäischen Union ein Fall für den Staatsanwalt. Das Bestreiten des armenischen Völkermordes kann einen vor ein schweizerisches Gericht bringen. Umgekehrt landet jemand, der die Vertreibung der Armenier aus Anatolien im Jahr 1915 als Völkermord bezeichnet, in der Türkei (auch im europäischen Teil) vor dem Kadi. In vier osteuropäischen EU-Ländern ist die Leugnung kommunistischer Verbrechen – wer immer diese als solche festlegt – strafwürdig. Der ‹Holodomor› wiederum muss zwischen Lwiw, Odessa und Donezk ein Verbrechen gegen die ukrainische Nation genannt werden, sonst droht ein Gerichtsverfahren.» (S. 10)

Missliebige kollektive Erinnerungen EU-weit verfolgen

Mit grosser Sorge verfolgt Hofbauer die zunehmende Verrechtlichung der Meinungsbildung und die Verfolgung «falscher» Meinungen in der EU. Ausgehend von Antirassismus-Paragraphen und Paragraphen gegen die Leugnung nationalsozialistischer Verbrechen, die in den europäischen Staaten schon lange installiert sind und ihre Funktion durchaus erfüllen, sieht Hofbauer eine Tendenz, missliebige kollektive Erinnerungen EU-weit zu verfolgen. Dass dabei die Singularität des Holocaust stillschweigend über Bord geworfen wird, nehmen die Akteure offensichtlich ohne Probleme in Kauf. «Mit der Strafbarkeit der Leugnung aller möglichen Kriegsverbrechen und Völkermorde, sobald sie nur von einem internationalen Gericht als solche identifiziert wurden, hat eine Inflation von zu bestrafender Gesinnung eingesetzt, die der ursprünglichen Sonderstellung des Holocaust (bzw. seine Verharmlosung oder Leugnung) entgegensteht und diese in gewisser Weise verhöhnt.» (S. 10)

Erinnerungsgesetze als Flankenschutz geopolitischer und wirtschaftlicher Interessen

Dass der Auschwitz-Vergleich nun für alle möglichen Untaten herhalten muss, die Hofbauer durchaus als solche anerkennt, aber in der Gewichtung als unverhältnismässig einstuft und vor allem als weiterhin der forschenden Fragestellung zugänglich einfordert – Srebrenica als neues Auschwitz, der Blutsonntag von Vilnius mit 14 Toten als neues Auschwitz, die Konflikte in Darfur als neues Auschwitz, die kommunistische Herrschaft in Polen, Tschechien, Ungarn und anderen von 1949 bis 1989 gleichrangig dem Hitler-Faschismus –, dieser Sachverhalt lässt den Historiker aus Österreich zu folgender These kommen: «Die neuen Meinungsdelikte und Erinnerungsgesetze dienen als Flankenschutz geopolitischer und wirtschaftlicher Interessen. Diese Erkenntnis war die Motivation dafür, das vorliegende Buch zu schreiben. Dies fiel mir erstmals bei der Beobachtung des jugoslawischen Zerfallsprozesses der 90er Jahre und insbesondere der vom Westen daran anschliessend betriebenen ‹Erinnerungspolitik› auf. Schon die inneren Faktoren der südslawischen Desintegration wurden von aussen dynamisiert. Zur Rechtfertigung mehrfacher poli­tischer und militärischer Interventionen vor allem in Bosnien-Herzegowina und im Kosovo muss­ten vage und unterschiedlich interpretierbare Menschrechtsargumente herhalten, während das international kodifizierte Völkerrecht gebrochen wurde. Nato und westliche Medien arbeiteten dabei Hand in Hand. Externe Interessen am Zerfall des Vielvölkerstaates wurden kleingeredet oder gänzlich verschwiegen.» (S. 10f.) Dies, so Hofbauer weiter, sei zu Unrecht geschehen: «Denn ein Blick auf die Landkarte im Jahr 2011 zeigt, wie sich die auswärtigen Interessen durchgesetzt haben: US-Soldaten betreiben den grössten Militärstützpunkt in Europa im kosovarischen Camp Bondsteel; sogenannte Hohe Repräsentanten (der EU und der Uno) verwalten Bosnien-Herzegowina und das Kosovo im längst überwunden geglaubten Kolonialstil; und die ökonomischen Herzstücke Ex-Jugoslawiens, Slowenien und Kroatien, sind bzw. werden Teil der Europäischen Union. Darum, um grösstmöglichen Nutzen aus der südslawischen Desintegration ziehen zu können, führten die westlichen Institutionen, allen voran die Nato, Krieg.» (S. 11)

Wahrheitsverordnung macht Schule

Noch während des Krieges wurde der serbische Präsident vor einem ad hoc eingerichteten Tribunal angeklagt: «Die Anklage­erhebung des Jugoslawien-Tribunals erweiterte die politischen, wirtschaftlichen und militärischen Mittel um eine rechtliche Dimension.» (S. 11)
Um die neokoloniale Eroberung abzusichern und den «richtigen» Verlauf des Konfliktes in die Gehirne der Europäer einzubrennen, hat die EU gerichtlich festgelegt, welches die Wahrheit darüber sei – und bestraft jene, welche einer Siegergeschichtsschreibung noch nie über den Weg getraut haben.


Dass diese Form von Wahrheitsverordnung Schule gemacht hat, zeigen die Haftbefehle des Internationalen Strafgerichtshofes ICC gegen Staatschefs von Ländern, gegen die der Westen Krieg führt oder führte, so gegen al-Baschir im Sudan und Gaddafi in Libyen. Hofbauer betont, dass die Bestrafung der beiden genannten Männer sicher gerechtfertigt sei, nur agiere der Gerichtshof zu einseitig. Was ist mit den Greueltaten der Gegenseite? Gehen die vom Westen als «Gute» Titulierten straffrei aus? Und mit welcher Begründung? Und die Ironie der Geschichte? Sie bestehe darin, «dass die USA als eine der hauptsächlichen Betreiberinnen dieser Verfahren den Internationalen Strafgerichtshof selbst nicht anerkennen». (S. 12) Wie bekannt, müsste Den Haag mit einer schnellen Eingreiftruppe US-amerikanischer Spezialeinheiten rechnen, welche US-Kriegsverbrecher «befreien» würden, die auf Grund von Enthüllungen wie jenen von zum Beispiel Seymour Hersh in Den Haag auf ihren Prozess warteten.

Italienische Historiker wehrten sich erfolgreich

Hofbauers Kritik an der heraufziehenden Gesinnungsjustiz im Westen kommt, wie er selber sagt, zwar von links, doch könne sich jeder liberal Denkende anschliessen, denn: «Die Empörung beginnt bei der Beschneidung der Meinungsfreiheit, die ein zutiefst bürgerliches Gut darstellt.» (S. 263) Aufrufe von italienischen und französischen Historikern aus allen politischen Lagern gegen die Gesinnungsparagraphen und die Pönalisierung von Forschung bestätigen Hofbauer in seiner Auffassung – in Italien konnte die Erinnerungsdiktatur bisher abgewendet werden, während Frankreich munter voranschreitet und absurde Diktate verhängt, beispielsweise die Loi Taubira und die Loi Mékachéra, wobei erstere gewisse Aspekte des französischen Sklavenhandels verurteilt, während das zweite Gesetz als Reaktion der Kolonialisten darauf die Reinwaschung der eigenen Kolonialgeschichte in Nordafrika und Indochina per Gericht und unter Strafandrohung verordnet. (vgl. Hofbauer, S. 57ff.). Ein Ablauf, der zeigt, wie situationsbezogen und enorm instrumentalisiert und einer Demokratie und der freien Forschung Hohn sprechend solche Erinnerungsgesetze sind.

Gesinnungsparagraphen als Folge der 9/11-Antiterror-Hysterie

Da die Gesetzesgrundlagen in Europa schon längst ausreichten, um extremistische Gruppen in Schranken zu weisen, geht es nach Hofbauer hier um etwas anderes, was nur im Kontext der neokonservativen und neoliberalen Kriegsallianz seit 9/11 zu verstehen ist: «Die in Leugnungsverbote verpackten Gesinnungsparagraphen wären ohne die politisch und medial verbreitete Anti­terror-Hysterie nicht denkbar. Über den dabei entstandenen Verlust von Bürgerrechten ist viel geschrieben worden. Die Kriminalisierung von Meinung, mit der sich das vorliegende Buch beschäftigt, geht einen Schritt weiter: Sie bedroht politische Debatten und wissenschaftliche Forschung, hegemonisiert kollektive Erinnerung, verrechtlicht historische Ereignisse und tabuisiert Begrifflichkeiten (zum Beispiel ‹Völkermord›). Die hier analysierte Gesinnungsjustiz ist Teil einer umfassender betriebenen repressiven Politik, mit der die poli­tischen Eliten der Europäischen Union ihre Verluste an gesellschaftlicher Akzeptanz kompensieren wollen. Dass dies mit Verboten und Reglementierungen gelingt, darf bezweifelt werden. Der Strafandrohung bei ‹falscher› Gesinnung kommt in diesem System die Funktion eines kleinen, aber wichtigen Rädchens zu, zielt sie doch auf den intellektuellen Diskurs.» (S. 264)

Schutz der Meinungsfreiheit als erste Bürgerpflicht

Hofbauers Buch ist eine breite Leserschaft zu wünschen. Wenn daraus eine lebhafte und ernsthafte Diskussion entsteht, auf ehrlicher und an der Würde des Menschen orientierter Grundlage, so würde das den Millionen von Opfern kriegerischer Auseinandersetzungen sicher eher gerecht als die Errichtung einer leicht durchschaubaren Gesinnungsdiktatur in Europa und im übrigen Westen. Vielleicht lassen sich einige Europäer durch die Propagandawalze noch beeindrucken und sehen den Unterschied zwischen angeblichen Werten und effektiven Interessen nicht, die hinter schönfärberischen Worten wie «humanitäre Intervention», «Schutzverantwortung», «Bombenkampagne für die Menschenrechte» der Welt verkauft werden sollen. Ganz sicher ist aber der Rest der Welt, und das sind immerhin 88 Prozent, nicht so naiv und durchschaut die Heuchelei und die Doppelbödigkeit des Westens – dies jedenfalls betont der grosse Diplomat aus Singapur, Kishore Mahbubani, wieder und wieder. Wenn also Hofbauers exakte Studie ausserhalb der westlichen Hemisphäre mit ihren 12 Prozent der Weltbevölkerung offene Türen einrennen mag, so ist ihr im Westen eine ernsthafte Rezeption nur zu wünschen. Der stolze Westen der Renaissance, des Humanismus und der Aufklärung sollte nicht in der
Lage sein, würdig ins 21. Jahrhundert zu schreiten und eines der Grundprinzipien der Demokratie, die Meinungsfreiheit, zu schützen?     •

Hannes Hofbauer, «Verordnete Wahrheit, bestrafte Gesinnung – Rechtsprechung als politisches Instrument». Wien 2011, ISBN 978-3-85371-329-7

Tous les Etats doivent avoir le droit de participer, sur un pied d’égalité, à la politique mondiale

Tous les Etats doivent avoir le droit de participer, sur un pied d’égalité, à la politique mondiale

Le Conseil des droits de l’homme de l’ONU crée le mandat pour un expert indépendant pour la promotion d’un ordre international démocratique et équitable

Interview d’Alfred de Zayas, docteur en droit et philosophie

Ex: http://www.horizons-et-debats.ch/

De-Zayas.jpgthk. Le 23 mars, Alfred de Zayas a été désigné, par le Conseil des droits de l’homme, comme expert indépendant auprès de l’ONU pour la promotion d’un ordre international démocratique et équitable. Il est le premier à avoir le droit d’assumer ce mandat créé en septembre 2011, pour pouvoir agir dans le domaine de la démocratisation de l’ONU et au sein des Etats nationaux unis en elle. Il est entré en fonction le 1er mai 2012. Déjà lors de la session d’automne 2012 du Conseil des droits de l’homme, Alfred de Zayas a présenté son premier rapport et a obtenu une large approbation. L’expert indépendant, qui présente une longue carrière à l’ONU, n’était pas venu tout à fait de manière inattendue à cette fonction, comme il le dit lui-même, car il s’est occupé depuis très longtemps de la question de l’organisation d’une vraie démocratie, c’est-à-dire de la démocratie directe, comme elle existe en Suisse. Avec son mandat, Alfred de Zayas souhaite s’engager pour la paix et l’égalité des peuples. «Horizons et débats» a interviewé Alfred de Zayas à l’ONU à Genève.

Horizons et débats: Monsieur de Zayas, comment doit-on comprendre la mission de votre mandat?

Alfred de Zayas: La mission comporte une synthèse des droits civiques, politiques, économiques, culturels et sociaux. C’est un mandat de réconciliation qui vise la coopération et la solidarité. Les Etats du Nord, du Sud, de l’Est et de l’Ouest doivent se retrouver dans ce mandat et reconnaître dans celui-ci un lien. C’est un mandat constructif qui repose sur les objectifs et les principes de la Charte des Nations Unies. Ce n’est donc pas un mandat qui se dirige contre un Etat, une région, une philosophie ou une idéologie spécifique.
Ici, il s’agit de deux choses: d’abord d’une démocratisation au niveau national, mais aussi au niveau des relations internationales entre Etats; ensuite d’un processus pour avancer dans la direction de l’équité nationale et internationale.

Que doit-on s’imaginer par une démocratisation à un niveau international?

Nous avons besoin d’un ordre mondial qui soit réellement démocratique, qui s’oriente vers les besoins des êtres humains. Cela signifie que tous les Etats doivent y participer. Lors de décisions qui touchent la vie communautaire de notre monde, tous les Etats en tant que représentants de leurs peuples doivent pouvoir s’exprimer. Cette égalité en droits, ce traitement égalitaire de tous est central dans le texte de la Résolution 18/6 qui fonde le mandat. Je me tiendrais exactement aux termes de la résolution, comme je l’ai déjà montré dans mon premier rapport.

A quoi veut-on parvenir avec cela?

Les Etats du soi-disant tiers-monde, les Etats du Sud, voudraient un ordre mondial qui soit basé sur la justice. Aussi bien le commerce que la distribution des ressources doit se dérouler équitablement. Le clivage entre pauvre et riche ne doit pas s’agrandir, mais diminuer. Sans que je doive désigner des Etats particuliers, je peux traiter le sujet à partir des connaissances théoriques si bien que je puisse remplir d’un contenu les termes comme démocratie, justice, équité, égalité, autodétermination et identité nationale. Mais on veut aussi formuler des recommandations pratiques et pragmatiques. Il y a déjà assez de livres sur la théorie des relations internationales.

Comment procédez-vous?

On trouve un grand nombre de sources aux Nations Unies. Je m’appuierai sur les rapports d’anciens rapporteurs, sur des études de la sous-commission de l’ancienne Commission des droits de l’homme et du Conseil des droits de l’homme même, ainsi que sur des études de l’Assemblée générale. Certes, je n’ai pas l’intention de répéter ce qui a déjà été fait. Cependant, je me baserai là-dessus. Comme vous le savez, j’étais secrétaire du Comité des droits de l’homme et chef du Département de requêtes à l’Office du Haut Commissaire aux droits de l’homme. La riche jurisprudence du Comité des droits de l’homme me soutient aussi.

Comment estimez-vous le degré d’efficacité de ce mandat?

Je suis très optimiste en ce qui concerne ce mandat, parce que beaucoup de réactions positives me sont parvenues depuis ma nomination et que mon adresse courriel a été publiée au sein de l’ONU, à savoir l’adresse ie-internationalorder@ohchr.org. Les ONG, les organisations intergouvernementales, les Etats, les organisations civiles et les individus m’ont contacté en apportant des propositions concrètes – par exemple comment ils comprennent mon mandat, où ils voient les priorités etc. Je prends au sérieux ces demandes et ces propositions. J’étudierai tout cela minutieusement. Déjà dans mon rapport au Conseil des droits de l’homme, j’ai cité dans le paragraphe 11, une liste de propositions sur des sujets que j’ai reçus de personnes intéressées. Je traiterai bien sûr ces propositions en priorité.

Que se passe-t-il avec toutes ces suggestions et demandes?

J’écrirai certainement un rapport sur le terme de participation de l’être humain à l’organisation politique de la démocratie, mais au niveau national et international, sur les questions de manipulation de l’opinion publique etc. Je présenterai ces études au Conseil des droits de l’homme l’année prochaine. Si je parle de démocratie, je pense à une véritable participation. Là, il ne s’agit pas seulement du droit de vote à l’intérieur d’un Etat, mais du droit de choisir la politique concrète. Cela comporte aussi le droit de participer à l’organisation des règles politiques. Des élections démocratiques tous les quatre ans, c’est une bonne chose, mais on doit avoir de véritables options et pas seulement voter pour la forme. La population doit également avoir la possibilité d’influencer la politique extérieure authentiquement, de sorte que les gouvernements ne puissent plus pratiquer une politique extérieure contre la volonté de la population.
Du point de vue international, les Nations Unies, respectivement le Conseil de sécurité, devraient être réformés afin de garantir une participation internationale plus representative, plus authentique, autrement dit, réaliser la démocratie.

En octobre, vous parlerez devant l’Assemblée générale. De quoi s’agira-t-il?

Oui, je dois présenter un autre rapport, plus détaillé, à l’Assemblée générale. Dans ce rapport, j’identifie une série d’obstacles et je tente de nommer les bonnes pratiques et je soumettrai mes recommandations à l’Assemblée générale. Cela se passera le 30 octobre 2012 à New York – Deo volente. Je verrai comment réagissent les Etats à mon rapport lors de l’Assemblée générale et ce qu’ils me proposeront.

Comment peut-on transmettre les fondements d’une vie communautaire démocratique à d’autres pays? Un «printemps arabe» ou des interventions militaires de l’OTAN n’aident certainement pas.

Je ne conçois pas mon mandat comme un mandat de «naming and shaming». Mon mandat, comme je l’ai dit, est constructif et il doit aider à comprendre ces termes partout de la même manière. Quand je parle de démocratie, cela devrait être plus ou moins semblable à ce qu’une personne entend par là en Amérique du Nord, en Amérique du Sud, en Australie, en Europe de l’Est, en Chine, en Inde ou en Afrique. Il n’est pas possible que chacun comprenne la démocratie à sa façon, et il n’est pas acceptable non plus que chacun applique le droit international à sa guise. Un des obstacles principaux à la paix mondiale et à la création d’un «ordre mondial» démocratique et juste est que de nombreux Etats n’appliquent pas le droit international de la même façon, ici ils disent oui et là ils disent non. Sans vouloir critiquer certains Etats, je voudrais attirer l’attention sur cette problématique fondamentale. Finalement, pour utiliser une expression anglaise, je crois que «The bottomline is participation.»

Cela veut dire?

Cela veut dire que les citoyens doivent pouvoir prendre part et participer à l’organisation de la politique et ceci directement. Le modèle de la démocratie directe offre ici beaucoup d’éléments. On doit avoir la possibilité d’initier une loi. La possibilité de contrôler des lois par des référendums, mais aussi la possibilité de demander des comptes aux fonctionnaires gouvernementaux, respectivement aux hommes politiques quand ils font une toute autre politique que celle qu’ils ont promise – cela doit être l’essence de la démocratie. Les politiques élus doivent pouvoir être poursuivis, quand ils n’ont pas tenu leur promesse qu’ils ont faite aux citoyens et ainsi abusé de leur confiance. C’est pourquoi on doit pouvoir éloigner ces personnes de leurs fonctions. Chez nous aux Etats-Unis, il existe le terme de «recall» ou d’«impeachment».
J’étudierai donc exactement le modèle de la démocratie directe. Il s’agit de la question de savoir comment on pourrait appliquer ce modèle avec certaines modifications dans d’autres pays. Toutefois, on doit tenir compte pour chaque pays de son histoire, de sa culture, de sa tradition et de ses représentations individuelles de la vie communautaire.

D’après vous, quel rôle l’Etat national jouera-t-il ici?

Comme dans la Grèce antique, un Etat est né avec la Polis, où les citoyens pouvaient prendre part à la politique, cela doit valoir aussi pour les différents pays. Donc, l’Etat national est décisif dans ce processus. Du point de vue international, nous voudrions que tous les Etats aient le droit d’organiser la politique mondiale sur un pied d’égalité. Mais aussi à l’intérieur, donc au niveau national, les citoyens d’un certain Etat doivent accepter les véritables lois pour eux, pour leur propre identité, pour leur propre culture et choisir une politique garantissant les droits de l’homme et la dignité de tous les citoyens.

Monsieur De Zayas, nous vous souhaitons beaucoup de succès dans l’accomplissement de votre mandat et vous remercions de cet entretien.    •

Monsieur de Zayas invite les lecteurs à partager leurs idées en envoyant leurs propositions à l’adresse suivante: ie-internationalorder@ohchr.org
(Traduction Horizons et débats)

Gemeenteraadsverkiezingen als volksverlakkerij

Gemeenteraadsverkiezingen als volksverlakkerij

Edi CLIJSTERS

Ex: http://www.uitpers.be/  

 
Gemeenteraadsverkiezingen als volksverlakkerij
 

Fanny Wille & Kris Deschouwer, Over mensen en macht. Coalitievorming in de Belgische gemeenten, Brussel, ASP, 2012; 192 pp.

Je kan natuurlijk, een oud anarchistisch motto indachtig, van oordeel zijn dat verkiezingen in een burgerlijke democratie eigenlijk altijd en hoe dan ook volksverlakkerij zijn, want “als verkiezingen écht iets zouden veranderen, waren ze al lang afgeschaft”.

Je kan ook geloven dat die burgerlijke democratie vooralsnog het minst slechte van de reëel bestaande systemen is om het volk enige inspraak  te geven in de beleidsvorming. En dat in gemeenten – bakermat bij uitstek van democratische rechten en vrijheden – verkiezingen de mensen meer aanspreken, juist omdat ze nauwer aansluiten bij wat die mensen dag-in, dag-uit rond zich zien.

Helaas: zoals dat wel vaker het geval is, houdt dit beate wensdenken geen stand wanneer het aan ernstig onderzoek wordt onderworpen. Wat betreft de motivatie van de kiezer, spreken de cijfers voor zich : ondanks de (theoretische) opkomstplicht, laten ook bij verkiezingen voor gemeente- of provincieraden ongeveer enkele honderdduizenden kiesgerechtigde burgers het afweten (dat is zo'n 5 à 7 procent, ongeveer hetzelfde percentage als bij regionale of nationale verkiezingen).
De grotere nabijheid van kandidaten en thema's blijkt dus niet van aard om kiezers sterker te motiveren. Je kan dus met recht en reden de vraag stellen wat er zou gebeuren indien de opkomstplicht werd afgeschaft. Met name dan op gemeentelijk vlak. Want een recent boek van twee VUB-politologen heeft wel verrassende dingen – en zelfs een ronduit schokkend feit - aan het licht gebracht over het allesbehalve democratische karakter van die verkiezingen-onder-de-kerktoren.

Nu ja ...aan het licht gebracht ? Het onderzoek bevestigt een dubieus verschijnsel dat op lokaal vlak vaak werd vermoed of zelfs aangetoond, maar toch een bijzondere relevantie krijgt nu blijkt dat het schering en inslag is. In tal van gemeenten wordt namelijk al (lang) voor de gemeenteraadsverkiezingen via geheime voor-akkoorden uitgemaakt hoe de toekomstige bestuurscoalitie er zal uitzien. Het kiezerspubliek in het algemeen en de eigen achterban in het bijzonder wordt daarover geheel in het ongewisse gelaten. En tenzij de kiezers een (lokale...) politieke aardverschuiving teweegbrengen, tellen ze dus alleen maar mee “voor spek en bonen”.
Verrassend ? Schokkend ? Leerrijk in elk geval. En daarom een element in het boek dat helaas te weinig in de verf wordt gezet door de auteurs zelf, én – driewerf helaas – ook door de commentatoren die de praktijken (zouden moeten) kennen.

Maar eerst iets meer over het boek. Dat is gebaseerd op het onderzoek waarop Wille aan de VUB promoveerde, en wil zo diep mogelijk “doordringen in de zwarte doos” van de coalitievorming op lokaal niveau. Daartoe worden diverse theorieën m.b.t. coalitievorming besproken en getoetst aan de lokale realiteit – die er doorgaans heel anders uitziet. Vervolgens worden systematisch de opeenvolgende stappen ontleed die leiden tot de vorming van deze of gene coalitie, en uitvoerig aandacht besteed aan de onderlinge krachtverhoudingen, onderscheiden spelers, uiteenlopende dan wel convergerende beleidsopties, en omgevingsfactoren. Dat is een mondvol, en zelfs meer dan dat.

Want het boek lijdt aan wat ik beleefd zal omschrijven als “didactische overkill”. U herinnert zich misschien wel die prehistorische stelregel die voorschreef hoe een goede les of redevoering moest worden opgebouwd: eerst zeg je wat je gaat vertellen, dan vertel je dat, en vervolgens besluit je door samen te vatten wat je verteld hebt. De regel mag dan uit het pre-electronische steentijdperk dateren, in dit boek wordt hij grondig, zéér grondig toegepast. Kortom: als er pakweg 30 van de 180 bladzijden tekst waren geschrapt, had dit de duidelijkheid niet geschaad, en de lezer toenemende ergernis bespaard. De bekommernis om dingen duidelijk uit te leggen kan ik alleen maar toejuichen; maar je mag de lezer die een boek als dit überhaupt ter hand neemt ook niet behandelen als een nitwit aan wie je vijf keer hetzelfde moet uitleggen.

Daarmee heb ik meteen het eerste aspect aangeduid dat mij heeft geërgerd, en kan ik terugkeren tot wat dit boek wél leerrijk en vaak zelfs boeiend maakt.

Een goed overzicht van de diverse theorieën over coalitievorming, om te beginnen. Daar is niets mis mee; alleen dienen de auteurs er – zeer terecht – herhaaldelijk op te wijzen dat die theorieën vooral slaan op 'echte' regeringsvorming, maar nauwelijks een rol spelen wanneer op lokaal vlak coalities moeten worden gesloten. Wat daar telt is: in de bestuursmeerderheid geraken, tot ongeveer elke prijs. Macht dus.

Maar ook : mensen. Ook in dat opzicht verschilt kleinschalige coalitievorming duidelijk van die op een hoger niveau. In de gemeente telt, veel meer dan in regionale of nationale regeringen, of individuen “met elkaar kunnen” of niet.

Dat zijn alvast twee betekenisvolle verschillen, en ze worden uitvoerig uit de doeken gedaan.
Er is nog een derde verschil : in België is het op nationaal of zelfs regionaal niveau zo goed als ondenkbaar dat één enkele partij een absolute meerderheid verovert en dus alleen zou kunnen regeren. Terwijl in Vlaanderen in ruim een derde van de gemeenten - en in Wallonië zelfs in meer dan de helft ! - één enkele partij alleen 'regeert'.Omgekeerd kan het spel van de coalitievorming er toe leiden dat de grootste partij uit de boot valt; dat blijkt in ongeveer 10 procent van de gemeenten het geval, en dat is dan weer een verschijnsel dat men op een hoger bestuursniveau evengoed aantreft.

Het boek ontleedt minutieus alle stappen in het onderhandelingsproces dat moet uitmonden in een nieuw college van burgemeester en schepenen; ook de waarde van belangrijke posities in OCMW en intercommunales worden niet uit het oog verloren. Zo krijgt de lezer een gedetailleerd beeld van wat zich zo al allemaal afspeelt voor, tijdens en na de verkiezingsslag, voor en achter de schermen.
Veel daarvan is voor de geïnteresseerde waaarnemer niet echt nieuw, en in die zin vormt het boek een zoveelste illustratie van de vaak gehoorde misprijzende bedenking dat nogal wat sociaal- of politiek-wetenschappelijk onderzoek weinig méér doet dan bevestigen “wat iedereen al wist”.

Alleen wordt dat dan nu als 'bewezen' beschouwd...
Tegenover dit soort goedkope kritiek is het bijzonder jammer dat de écht nieuwe, ophefmakende onthulling van dit onderzoek niet duidelijker in de verf wordt gezet: dat er namelijk al zoveel wordt beslist, lang vóór de verkiezingen en ver àchter de schermen. Dat voor-akkoorden om in dezelfde of in een nieuwe coalitie samen te besturen al zijn afgesloten (en soms zelfs bij een notaris gedeponeerd) lang vóór de kiezer zijn zeg heeft gehad.

Dàt zoiets gebeurt is al kras. Nog krasser is de vaststelling dat die praktijk schering en inslag is. Want daarover laten de auteurs geen twijfel: “waar men gaat langs Vlaamse of Waalse wegen komt men voorakkoorden tegen” !

Hier situeert zich dan ook mijn tweede essentiële kritiek. Er valt zeker iets te zeggen voor de stelling dat een wetenschappelijk onderzoek zich moet of mag beperken tot het aan het licht brengen van bepaalde mechanismen, maar zich dient te onthouden van een waarde-oordeel daarover. Maar wanneer je achteraf op basis van dat onderzoek een boek op de markt brengt dat toch duidelijk bedoeld is voor een breder publiek … moet je wellicht wél je nek uitsteken en duidelijk een standpunt innemen tegenover een uitgesproken ondemocratisch verschijnsel. Dat mag zeker worden verwacht van wetenschappers die er doorgaans niét voor terugschrikken het politieke wereldje de les te lezen...

Zo'n duidelijk standpunt ontbreekt in dit boek. Met een “iedereen doet het” is de kous m.i. niet af, wanneer je vaststelt dat de wil van de kiezer op zo'n flagrante manier buiten spel wordt gezet – zelfs al is dat dan slechts op lokaal niveau. En dat verkiezingen de politiek nu eenmaal tot een “hoogst onzekere omgeving” maken, tja … dat geldt tenslotte niet alleen voor het gemeentelijke niveau. Het is precies een wezenskenmerk van democratie dat machthebbers die macht ook kunnen verliezen. Dat zij zich aan die onzekerheid willen onttrekken is ongetwijfeld begrijpelijk vanuit hùn standpunt, maar niet vanuit dat van iemand die begaan is met de kwaliteit van onze democratie.

Dat een partij nog voor de verkiezingen een bondgenootschap aangaat met een of meer andere partij(en) kan alleen maar worden gerechtvaardigd indien dat ook open en eerlijk gebeurt, zodat de kiezers weten waar ze aan toe zijn. Dan kunnen ze nog altijd soeverein uitmaken of ze dat spel meespelen of niet.

Het zou dus bijvoorbeeld leerrijk zijn geweest enkele gevallen – of tenminste één geval – nader te onderzoeken waarin een bestaand voor-akkoord niet kon worden uitgevoerd omdat uiteindelijk de kiezer de kaarten beduidend anders deelde dan verwacht. Want misschien gebeurde dat juist omdat men een of andere afspraak vermoedde, en die wou doorkruisen. Wie wil, mag dat als een suggestie voor een volgend proefschrift beschouwen.

Méér dan een suggestie is mijn laatste punt van kritiek: over het feit dat allerlei belangrijke posities in intercommunales helemààl niet aan het oordeel van de kiezer worden onderworpen, wordt in dit boek ook ergerlijk licht heengegaan. Je kan natuurlijk aanvoeren dat dit tenslotte de 'prijs' is die de winnaars in de wacht slepen. Maar recente gebeurtenissen hebben, dacht ik, toch voldoende aangetoond dat ook – of zelfs met name – op dat niveau wat meer democratische controle en inspraak zeker geen kwaad kan. Kortom: ook hier schieten de kritische wetenschappers tekort.

Slotsom: een leerrijk en zelfs onthullend, maar uiteindelijk onbevredigend boek, omdat het te braaf blijft.